Giusto o sbagliato pubblicare Ramadan ? il quotidiano arancione apre il dibattito
Testata: Autore: Andrea Cardinale - Andrea Romano - Alessandro Da Rold Titolo: «Perché diffidare di Ramadan - Perché pubblicare Ramadan - Viale Jenner applaude: potremmo presto invitarlo in moschea»
Dal RIFORMISTA del 25 settembre 2008, un'intervista a Daniel Pipes sull'integrazione dei musulmani in Europa e su Tariq Ramadan:
New York. "È un disastro". Daniel Pipes, considerato la figura mediatica del neoconservatorismo americano, in tre parole chiare definisce così lo stato di integrazione dei musulmani in Europa e risponde a Tariq Ramadan che ieri in un suo editoriale sul Riformista ha sostenuto la tesi opposta. Mr. Pipes, Ramadan scrive che, sulla base di cifre e fatti concreti, non condivide il pessimismo che segna la riflessione sulla presenza dell'islam in occidente. Cosa ne pensa? La situazione in Europa è disastrosa. L'opinione personale di Ramadan sull'integrazione dei musulmani in occidente, e in particolar modo in Europa, non ha alcuna rilevanza perché i fatti sono diversi. Innanzitutto quella che viene definita Eurabia non è fantapolitica ma una realtà. Il dominio religioso, culturale e sociale di buona parte della popolazione musulmana in Europa è sotto gli occhi di tutti. Gli stessi europei sono i primi a dire basta! E a chiedere ai propri governi di limitare se non interrompere del tutto le ondate migratorie provenienti dai paesi arabi. Non è un caso se, negli ultimi mesi, in Europa i partiti della destra conservatrice hanno registrato un'incredibile ascesa. Ramadan non nega che gli europei abbiano difficoltà ad accettare la presenza di musulmani nel proprio Paese. La paura del diverso ha sempre accompagnato le ondate migratorie: anche gli italiani sbarcati all'inizio del Novecento negli Stati Uniti, vennero inizialmente denigrati e tenuti a distanza, soltanto perché non parlavano l'inglese. La situazione è diversa. Lei ha mai sentito parlare delle comunità cinesi o indiane che sono causa di tutto questo malcontento? No e il perché è semplice. Gli europei non temono la cultura legata all'Islam, ma la determinazione di molti musulmani a dominare e a voler imporre le proprie regole e tradizioni: obbligare le donne a coprire il viso, spesso l'intero corpo, con il velo, il diffuso proselitismo della sharia che avviene nelle moschee, sono chiari segnali che la maggior parte dei musulmani non vuole affatto integrarsi con la cultura europea. Ramadan sostiene che la seconda e la terza generazione di immigrati è molto più integrata rispetto a quella dei genitori: la maggior parte, ad esempio, parla correntemente la lingua del Paese in cui vive. Lei è d'accordo? Il fatto che un ragazzo marocchino parli l'inglese perché vive in Inghilterra non ha nulla a che fare con il grado di integrazione. Si, è vero i giovani che appartengono alla seconda generazione conoscono la lingua, il cibo locale e le squadre di calcio meglio dei propri genitori ma francamente non sono questi gli elementi che possono indicarci il grado di integrazione. Al contrario di quanto scrive Ramadan, io sono convinto che le nuove generazioni siano molto meno integrate rispetto alla prima che fu spinta a trasferirsi in Europa per un solo motivo, il lavoro. Dunque per lei, i giovani di fede musulmana non vogliono lavorare ma semplicemente diffondere l'islam radicale? I numeri parlano chiaro: oggi il tasso di disoccupazione dei giovani appartenenti alla seconda o terza generazione è nettamente più alto rispetto a quella dei genitori. Le rivolte delle banlieue in Francia di tre anni fa ne sono un esempio, e sono convinto, che in un futuro non troppo lontano episodi di questo genere si ripeteranno. Ma il tasso di disoccupazione è una variabile esogena alla volontà di integrazione. Anche per gli "indigeni" è difficile trovare lavoro. Ramadan non nega che i musulmani in Europa debbano maggiormente responsabilizzarsi e abbandonare il vittimismo. Sarei anche d'accordo con Ramadan su questo ultimo argomento. Sono fermamente convinto che anche gli europei debbano lavorare sul loro livello di accettazione e che vivere da immigrato non è affatto semplice. Il problema è che a sostenere queste tesi sia Ramadan che considero un personaggio ambiguo in grado di raccontare agli occidentali una storia diversa da quella che predica ai musulmani a cui raccomanda di non abbandonare le proprie tradizioni e non adattarsi al contesto sociale e culturale dell'occidente.
Un editoriale di Andrea Romano, entusiasta della collaborazione al RIFORMISTA di Ramadan:
Ieri mattina ho comprato il Riformista in un'edicola di Torino. E ho cominciato a leggere l'editoriale di Ramadan mentre camminavo per le vie di Porta Palazzo, popolate come ogni giorno da una stragrande maggioranza di immigrati musulmani tra cui si aggirano pochi e sparuti torinesi. Leggevo e guardavo quel mondo, eccezionale ma non troppo, domandandomi come sarebbe stata Porta Palazzo tra vent'anni. Di qui ad allora spariranno come per incanto i segni di un islam provvisorio ma già pervasivo, i venditori di kebab e birra analcolica, le macellerie halal? O Torino avrà trovato una forma di convivenza meno tesa e traballante con questi suoi nuovi abitanti? E soprattutto, che tipo di cittadini saranno i figli e i nipoti di questi immigrati? Leggere e pubblicare Ramadan ha a che fare esattamente con questi interrogativi. Più precisamente, con le argomentazioni politiche a cui può ricorrere l'occidente per includere gli immigrati di fede islamica nel suo spazio di cittadinanza democratica e liberale. A costo di una qualche banalizzazione, possiamo riassumere in due categorie le risposte più diffuse tra di noi sul problema. La prima chiede ai musulmani di rinunciare a essere tali in cambio della piena integrazione: dunque cittadini molto prima che credenti, o ancor meglio cittadini non credenti. È la via dell'assimilazione civile e repubblicana di tradizione francese, orgogliosa della propria laicità radicale e pronta a trascurare in piena coscienza ogni complicazione identitaria di carattere religioso. La seconda risposta, più diffusa dalle nostre parti geografiche e politiche, si ispira alla gommosa retorica del multiculturalismo e chiede all'occidente di accogliere i "migranti" musulmani come tali: in quantità indefinite, possibilmente senza intralci e soprattutto senza porsi alcun interrogativo sulla qualità della loro futura cittadinanza. La riflessione di Ramadan percorre lo stretto pertugio aperto tra queste due argomentazioni. Si rivolge innanzitutto agli islamici occidentali, coloro che già abitano il nostro territorio, invitandoli a essere allo stesso tempo musulmani e cittadini attivi delle società liberali nelle quali vivono. Non un generico invito ad "essere buoni e moderati", ma qualcosa di molto più spigoloso per un orecchio laico come il mio. È un'esortazione interna al mondo musulmano, di cui accetta l'orizzonte religioso e verso il quale cerca di tradurre il nostro civismo repubblicano. Chiedendo ai musulmani di rimanere tali accettando i doveri, le responsabilità e l'impegno che lo spazio civile liberale chiede a ogni suo cittadino. È dunque un'operazione simile a quella che si svolse nel mondo cattolico italiano tra fine Ottocento e primo Novecento, quando la negazione di legittimità che il Non Expedit papale aveva indirizzato allo Stato unitario fu superata dai molti che pensarono, scrissero e agirono da cattolici e cittadini attivi. Per questo è importante pubblicare e discutere Ramadan. Non per un generico diritto di tribuna ma per provare a uscire dall'impasse nel quale è finita la nostra discussione su islam occidentale e democrazia. Questo è quanto interessa di Ramadan a chi, come me, ha convinzioni molto forti sul fondamentalismo islamico e sull'occidente. Convinzioni che in molti punti sono diverse da quelle di Ramadan: sul sionismo, sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo, sull'Iran, sul boicottaggio dell'ultimo Salone del libro e chissà su cos'altro ancora. Eppure tendo a prendere sul serio chi scrive di cose serie. Senza rifugiarmi nel dietrologismo e immaginare che dietro le sue parole ve ne siano altre che non capisco o non voglio capire. E senza accusare Ramadan delle colpe del nonno, come fa chi ricorda il suo legame di parentela con il fondatore dei Fratelli musulmani Hassan al Banna. Un'accusa particolarmente strampalata in un paese come il nostro, popolato da figli e nipoti di fascisti o stalinisti che hanno sempre e legittimamente conservato il diritto di parola.
Entusiasti della collaborazione di Ramadan lo sono anche al Centro islamico di viale Jenner, noto per il suo fondamentalismo, per le indagini di cui è stato oggetto e per la sua ostilità all'esistenza di Israele. Non dovrebbe essere un campanello d'allarme ?
Nel centro islamico di viale Jenner a Milano Tariq Ramadan lo conoscono bene. È soprannominato «la voce riformista» del pensiero islamico, tra gli intellettuali che in questi anni più si è «impegnato» sulla questione dei musulmani in occidente e «sulla loro integrazione» nei paesi europei. «Non può che riempirci di gioia il fatto che una persona come lui scriva su un quotidiano italiano - dice al Riformista, Abdel Hamid Shari, portavoce del centro -. Saremmo felici di averlo il prima possibile da noi come ospite». Negli ultimi due mesi "viale Jenner" ha fatto notizia per motivi di ordine pubblico dovuti alla preghiera serale: i fedeli pregavano per strada vista l'esiguità degli spazi del centro islamico. Il braccio di ferro con Comune e Prefettura durato tutta l'estate. E non è ancora finito. Ma non è la prima volta che viale Jenner finisce sui giornali. Qui un tempo l'imam era Hassan Mustafa Osama Nasr (Abu Omar) sequestrato dalla Cia nel febbraio 2003 per terrorismo internazionale. Qui ci sono "i duri e puri" della dottrina islamica. Molte testimonianze raccontano che diversi frequentatori del centro, tra cui lo stesso Abu Imad attuale Imam, si rifiutano di stringere la mano alle donne. Magdi Allam ha definito questo spazio culturale «il più inquisito d'Italia» e «il più colluso con il terrorismo internazionale». «Ci vorrà un po' di tempo perché la "mensa avariata" con cui ci dipingono in Italia cambi - dice Shari -, ma io mi fido degli italiani e so che un giorno capiranno che i musulmani sono in Europa da più di 700 anni». E sulle parole di Ramadan che ha spesso esortato la comunità musulmana europea a fare di più e ad avere posizioni chiare su alcuni argomenti come la violenza terrorista, Shari risponde: «Ha perfettamente ragione. Facciamo pochissimo e per questo ci dipingono spesso come una comunità molto chiusa. Dobbiamo partecipare di più alla vita civile, sociale e politica italiana. Credo sia anche una questione generazionale: la seconda generazione saprà aprirsi di più alla società occidentale rispetto alla prima». Viale Jenner rimane in ogni caso una delle realtà italiane più legate alla vecchia tradizione islamica. La maggior parte dei fedeli restano in stretto contatto con i loro paesi di provenienza e tanti sono i giovani della "seconda generazione" che rifiutano gli stili di vita europei. «Posizioni che devono essere rispettate - ci dice Sumaya Abdel Kader, scrittrice, una delle prime figlie dell'immigrazione italiana, nata a Perugia nel 1978 da genitori palestinesi e ora milanese d'adozione -. Anche noi siamo molto legati ai nostri paesi d'origine, ma cerchiamo di avere un giusto mix con l'occidente: cerchiamo di prendere il meglio da entrambe le culture». «Spesso tra i musulmani dicono che sono troppo occidentale: è un'accusa di cui vado molto fiera", afferma Dounia Ettaib, vicepresidentessa dell'associazione delle donne marocchine in Italia, aggredita proprio dalle parti di viale Jenner l'anno scorso e nota per aver manifestato di fronte al tribunale di Brescia al processo per l'uccisione di Hina. «Un esempio di integrazione credo sia quello degli ebrei, che si sono adattati in tutte le parti del mondo mantenendo la loro identità e accettando quella dei paesi ospitanti. Non capisco - conclude Dounia - perché i musulmani non possano fare lo stesso».
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