Essere pronti alla guerra per perseguire la pace il discorso Bob Gates, ministro della Difesa americano, al think tank britannico Oxford Analytica
Testata: Il Foglio Data: 23 settembre 2008 Pagina: 4 Autore: Bob Gates Titolo: «La forma della forza»
Il FOGLIO del 23 settembre 2008 pubblica a pagina 2 dell'inserto il discorso del ministro alla Difesa americano Bob Gates al think tank britannico Oxford Analytica, tenuto venerdì 19 settembre.
Ecco il testo:
E’un grande piacere essere nel Regno Unito e un onore trovarmi qui, in questo luogo così illustre. Non ho mai cenato in un ambiente così splendido. Avendo vissuto per qualche anno in Texas, ho una grande passione per cibi che non sono giudicati particolarmente sani. Questa sera Winston Churchill sarà citato più di una volta, e voglio subito ricordarvi alcune parole che disse durante la Seconda guerra mondiale e che mi hanno sempre molto colpito: “Quasi tutti i maniaci del cibo che ho conosciuto, mangiatori di noccioline e simili, sono morti giovani dopo un lungo periodo di decadenza senile. E’ alquanto probabile che il soldato britannico la sappia molto più lunga di qualsiasi scienziato. La sola cosa che gli interessa è la carne di manzo. Il modo migliore per perdere la guerra è costringere i cittadini britannici a seguire una dieta a base di latte, farina d’avena, patate, ecc., accompagnata, nelle occasioni di gala, da un goccio di succo di lime”. Francamente, è un piacere anche trovarsi fuori dagli Stati Uniti durante la campagna presidenziale. A noi americani, ogni quattro anni, ci prende una strana frenesia. Il presidente Truman, invitato a Oxford per ricevere una laurea ad honorem, osservò a questo proposito che “nell’anno delle elezioni ci comportiamo quasi come un popolo primitivo quando c’è la luna piena”. Queste visite, oltre a servire per mandare avanti gli affari di stato, rappresentano un’occasione per celebrare e fare un bilancio della speciale relazione che unisce i nostri due paesi. Sono appena tornato dall’Iraq e dall’Afghanistan. Nelle mie visite al fronte ho sempre avuto l’opportunità di incontrare soldati del Regno Unito e, come sempre, sono rimasto colpito dal loro valore e dalla loro professionalità. Fin dal giorno dell’attentato alle Torri gemelle, i soldati britannici si sono impegnati al massimo nella lotta contro il terrorismo. Qualsiasi relazione, per quanto possa essere speciale, ha necessariamente i suoi momenti di tensione e difficoltà. Mi viene in mente un episodio avvenuto nel 1989, quando ero viceconsigliere per la Sicurezza nazionale nell’Amministrazione di Bush senior. Il presidente aveva preso la storica decisione di ridurre drasticamente le nostre forze convenzionali in Europa. Toccò a Larry Eagleburger, allora vicesegretario di stato, e a me esporre la proposta agli alleati Nato. In una visita segreta in Europa, la nostra prima fermata fu il Regno Unito. Sapevamo che, se fossimo riusciti a fare accettare la proposta a Margaret Thatcher, convincere il resto dei paesi Nato sarebbe stata una passeggiata. Dopo essere stati fatti entrare nel suo studio, le consegnammo la lettera in cui il presidente Bush esponeva la sua proposta. Dopo averla letta attentamente, ne discusse con noi a lungo e con estrema competenza. Alla fine, come era da aspettarsi, ci garantì il suo appoggio. Accompagnandoci all’uscita, ci disse sorridendo che eravamo entrambi sempre benvenuti a 10 Downing Street. Poi, mentre il suo volto si faceva di ghiaccio, aggiunse: “Ma non voglio mai più sentire una parola su questo argomento”. In una successiva conversazione con l’allora presidente Bush, si riferì a noi due usando i nomignoli di Tweedledee e Tweedledum. Per un americano è impossibile parlare in un luogo come questo senza evocare quell’inglese dal cuor di leone che proprio qui era nato. L’eroica oratoria di Churchill al tempo della guerra non sarà mai dimenticata nel mio paese. Churchill era anche uno straordinario osservatore della natura e della abitudini umane – in particolare dei costumi di coloro che lui stesso definiva i “nostri parenti sull’altra sponda dell’oceano”. Come ben noto, degli Stati Uniti si lamentò con queste parole: “Carta igienica troppo fine e giornali troppo spessi!”. Come si può facilmente immaginare, non gliene importava nulla del proibizionismo, che riteneva una “stupefacente manifestazione” di “arroganza” e di “impotenza”. Quanto alla politica americana, disse: “Non potrei mai candidarmi alla presidenza degli Stati Uniti. Tutte quelle strette di mani a persone di cui non mi importa nulla mi ucciderebbero”. Nel 1946 Churchill andò a trovare il presidente Harry Truman in America. Truman aveva voluto che il sigillo presidenziale fosse cambiato, in modo che l’aquila dalla testa bianca fosse rivolta verso il ramo d’ulivo e non verso la faretra delle frecce. Quando lo venne a sapere, Churchill osservò: “Perché non mettere il collo dell’aquila su uno sgabello girevole, in modo che possa girarsi a destra o a sinistra a seconda delle necessità?”. Qui, naturalmente, Churchill si riferiva al fatto di essere pronti tanto a fare la guerra quanto a cercare la pace – concetto che serve da perfetta introduzione all’argomento di cui voglio parlare questa sera: la necessità di trovare un giusto equilibrio tra la moderazione negli affari internazionali e la determinazione a sostenere e difendere con la forza i nostri interessi quando necessario. E’ un argomento che appare ancora più scottante alla luce delle recenti vicende del Caucaso e del dibattito che si è aperto sul modo in cui l’occidente vi avrebbe dovuto rispondere. Ed è un argomento perfettamente appropriato per questa sede, il palazzo di un grande difensore delle libertà d’Europa – il Duca di Marlborough – e luogo di nascita del suo famoso discendente, Winston Churchill. Lascia davvero stupefatti pensare che Sir Winston, dopo avere svolto entro queste mura le ricerche per la sua monumentale biografia di Marlborough, ne pubblicò il volume conclusivo nel settembre del 1938, lo stesso mese in cui Neville Chamberlain si recò a Monaco e lasciò che Hitler si impadronisse della regione dei sudeti. Per i suoi profetici avvertimenti sulla Germania nazista e il rifiuto dell’appeasement, Churchill viene spesso citato – soprattutto sulla mia sponda dell’Atlantico – tutte le volte che scoppia una crisi o che si profila una minaccia nemica. E ancora oggi Monaco viene mostrata come un esempio perfetto per giustificare la necessità di affrontare tempestivamente le minacce di nemici e tiranni, per evitare che l’inazione sia causa di guerra e persino di genocidi. Ma se la Conferenza di Monaco del 1938 – esattamente settant’anni fa – rappresenta un’importante lezione, c’è anche un’altra lezione della storia altrettanto importante, che continua ancora a essere una ferita aperta in questa isola e nelle nazioni dall’altra parte della Manica. E’ la lezione dell’agosto 1914, quando una combinazione di calcoli errati, hubris, bellicosità, timore di apparire deboli e di sfrenato nazionalismo portò a un disastroso e niente affatto necessario conflitto. Per dirlo in termini più duri e diretti, l’incapacità di riconoscere il significato delle lezioni della storia ha portato in un caso, quello dell’agosto 1914, alla battaglia della Somme, e nell’altro caso, quello del settembre 1938, a Dunkirk e a Dachau. Per buona parte del secolo scorso, la psicologia, la retorica e la strategia politica sulle questioni di guerra e pace è stata determinata, e spesso con una costante oscillazione, da questi due poli: da una parte, pressioni eccessive a intervenire militarmente e, dall’altra, pressioni altrettanto eccessive alla moderazione; da una parte, una troppo facile disposizione all’uso della forza militare e, dall’altra, un troppo radicale rifiuto di essa. Per le democrazie occidentali, un’esagerata interpretazione delle lezioni dellaPrima guerra mondiale – ossia che il conflitto deve essere evitato a ogni costo – ha contribuito a portare a Monaco 1938. Per gli Stati Uniti, un’esagerata interpretazione delle lezioni di Monaco – spesso citate dai presidenti Kennedy e Johnson – ha contribuito a portare alla guerra del Vietnam. Devo confessare che, mentre mi preparo a ritirarmi da una carriera fatta quasi interamente nei servizi segreti e nel dipartimento della Difesa e cominciata quarantadue anni fa, mi sono abituato a non dare molto credito alle grandiose dichiarazioni e previsioni sul futuro e alla nostra capacità di decifrarlo, soprattutto quando applichiamo le cosiddette “lezioni della storia”. Come ha scritto un celebre storico americano, Gordon Wood: “La storia non ha da insegnarci tante piccole lezioni. Se davvero ci insegna qualcosa, ci insegna soltanto una grande e fondamentale lezione: che nulla viene fuori nel modo in cui i suoi progettisti l’avevano inteso o immaginato”. Proprio così. Anche a Winston Churchill, uno dei più preveggenti statisti del Ventesimo secolo, ogni tanto la sfera di cristallo si offuscava. Nel 1908 dichiarò: “Ritengo molto deplorevole che alcuni cerchino di diffondere in questo paese l’idea che una guerra tra Gran Bretagna e Germania sia inevitabile. E’ una completa assurdità”. E nel 1924: “Una guerra con il Giappone! Non credo che ve ne sarà anche la più remota possibilità in tutta la nostra vita”. Uno dei più stretti consiglieri del presidente Franklin D. Roosevelt, il giudice della Corte suprema Robert Jackson, ha fatto quest’osservazione sulla Seconda guerra mondiale: “I nostri servizi segreti si erano sbagliati praticamente su tutto (…) Avevamo enormemente sottovalutato la forza e la potenza bellica di Hitler. Avevamo sopravvalutato le capacità di resistenza della Francia. Avevamo sopravvalutato la forza dell’Inghilterra. Avevamo sopravvalutato la determinazione del Belgio. Avevamo sottovalutato il Giappone e la potenza della Russia”. Ci sono molti altri esempi, anche più recenti, dell’incapacità di prevedere sfide e minacce o di valutarne accuratamente la portata e l’imminenza. In breve, ritengo che ogni uomo di stato, a differenza degli imperatori romani, ai quali l’autista del loro carro da guerra sussurrava sic transit gloria mundi, farebbe bene ad ascoltare attentamente coloro che sussurrano semplicemente: “Signore, non so bene che diavolo stia succedendo qui”. Oggi dobbiamo affrontare una serie di minacce globali alla sicurezza probabilmente senza precedenti per portata e complessità, che ci pongono dilemmi che non si possono risolvere semplicemente con una scelta tra il metodo Chamberlain e il metodo Churchill. Dopo il collasso dell’Unione sovietica e la fine della Guerra fredda, si sono riaperte antiche rivalità etniche, religiose e nazionalistiche che erano rimaste sopite fin dai tempi della Grande guerra: i massacri etnici e religiosi nei Balcani; l’apparente ritorno della Russia alle ambizioni dell’impero zarista; la spaccatura tra sciiti e sunniti in Iraq e in tutto il medio oriente. Il cast dei protagonisti, pur trovandoci ormai a quasi un secolo di distanza, continua a rimanere inquietantemente simile. Quindi la Storia – in tutta la sua contingenza e i suoi tragici aspetti – non è finita con la fine della Guerra fredda, come aveva scritto uno studioso americano, ma è tornata in scena con forza ancora maggiore. E’ tornata in un mondo molto più interdipendente di quanto lo fosse quello del 1914 o quello del 1938. E agli antichi mostri e vecchie malattie si sono aggiunte nuove forze di instabilità e conflitto: reti terroristiche radicate in un violento estremismo; il risorgere di stati-nazione animati da nuova ricchezza e nuove ambizioni; la proliferazione di pericolosissime armi; stati autoritari arricchitisi con i proventi del petrolio e insoddisfatti della propria posizione all’interno dell’ordine internazionale. Ciononostante, anche agli smaliziati di una vecchia spia, ci sono molte ragioni di ottimismo. Per prima cosa, c’è la straordinaria crescita della libertà politica ed economica in tutto il mondo rispetto al tempo in cui ho prestato per l’ultima volta servizio nel governo, quindici anni fa. Ma per garantire questi straordinari risultati, e proteggere i nostri interessi vitali in questo mondo globalizzato, la prossima Amministrazione americana, collaborando con i nostri alleati, dovrà mettere in campo una sapiente combinazione di moderazione e determinazione per affrontare le minacce che incombono su di noi. Questo vale anche nei riguardi dell’atteggiamento che dobbiamo mantenere con la Russia. A questo punto mi sembra opportuno notare come, per la prima volta, tanto il segretario di stato quanto il segretario alla Difesa americani siano persone con un dottorato in studi russi. E’ un fatto estremamente positivo e importante. Dopo la Guerra fredda, tre amministrazioni presidenziali americane hanno cercato di stringere rapporti più stretti con la Russia, sulla base della convinzione che, nonostante tutte le nostre differenze, avevano in comune alcuni fondamentali interessi economici e di sicurezza. A partire dall’autunno scorso, io e il segretario Rice abbiamo avviato quello che speravamo sarebbe stato un lungo dialogo strategico con le nostre controparti russe, nell’ambito del quale cercare di: sostenere l’ingresso della Russia nell’Organizzazione mondiale del commercio; promuovere la cooperazione con Mosca in materia di difesa missilistica; e impegnarci in tutta una serie di campi, come delineato al summit di Sochi, lo scorso aprile, dal presidente Bush. Il recente comportamento della Russia solleva qualche quesito su quanto possiamo effettivamente conseguire sulla strada del rapporto costruttivo. Ora, è vero che anche i regimi autoritari hanno i loro legittimi interessi relativi alla sicurezza, ma le affermazioni fatte dalla Russia – che dieci intercettatori di missili balistici in Europa centrale minacciano il loro arsenale nucleare strategico o che le democrazie della Nato ai loro confini rappresentino un cordone sanitario – mettono a dura prova la volontà di credere loro e hanno il sapore dell’agitatore politico sovietico di vecchio stampo. Ribadisco quanto ho affermato a Monaco, l’anno scorso alla Conferenza Wehrkunde. Presi la parola dopo che l’allora presidente Vladimir Putin aveva fatto un discorso che sembrava uscito da un Congresso del Partito comunista degli anni Cinquanta e la mia risposta fu: “Una Guerra fredda ci è bastata”. In realtà, la politica russa è carica di un desiderio, alimentato dalla convinzione di aver subito dei torti, di dominare il proprio “vicino estero” e non di una volontà ideologica di dominare il mondo. E il comportamento attuale della Russia – per quanto tremendo – non rappresenta la minaccia esistenziale e mondiale che ha rappresentato l’Unione sovietica. Piuttosto, come ha detto il segretario di stato Condoleezza Rice, la Russia sta cercando “di trarre dei vantaggi dalle norme, dai mercati, dalle istituzioni internazionali, mettendo al tempo stesso a repentaglio le proprie stesse fondamenta”, anche se, in fin dei conti, una “Russia del Diciannovesimo secolo e una Russia del Ventunesimo secolo non possono convivere nello stesso mondo”. In base all’esperienza accumulata redigendo stime della forza militare sovietica per vari presidenti americani, posso confermare che, nonostante tutti i recenti miglioramenti e i programmi di modernizzazione in corso, l’esercito convenzionale russo resta un’ombra del suo predecessore sovietico sia per dimensioni sia per capacità. Le immagini dei mezzi blindati e dell’artiglieria russa che schiacciano il minuscolo esercito georgiano, una forza attiva di meno di 30 mila uomini, non contraddicono questa fondamentale realtà. Per oltre quarant’anni i presidenti americani di entrambi i partiti politici si batterono con ogni mezzo per contenere le aggressioni del predecessore sovietico della Russia senza confronto militare, in uno sforzo che ha consumato gran parte della mia vita professionale. Considerando anche il fatto di aver dovuto firmare quasi millequattrocento lettere di condoglianze da quando ho assunto questa carica, non vedo motivo per cui dovremmo cambiare impostazione proprio ora. Può anche darsi che la leadership russa stia cercando di esorcizzare umiliazioni subite in passato e aspiri a riconquistare una gloria passata insieme con territori posseduti in passato, ma bistrattare e minacciare piccole democrazie non è un comportamento che fa grande una potenza. Le nazioni non soltanto europee ma anche dell’Asia centrale e dell’Estremo oriente oggi guardano la Russia con occhi diversi. Come ha detto il ministro degli Esteri inglese, David Miliband, il mese scorso, in seguito a quanto accaduto in Georgia, “la Russia è più isolata, ha meno credito ed è meno rispettata”. Io credo che l’incursione in Georgia con il tempo sarà riconosciuta al massimo come una vittoria di Pirro e come un costoso sconfinamento. Europa e Stati Uniti parteciperanno alla ricostruzione della Georgia e nelle settimane e nei mesi che verranno prenderanno altre decisioni sui rapporti con la Russia, decisioni che potrebbero, tra le altre cose, avere anche la conseguenza di influire sulla richiesta della Russia di entrare nella Organizzazione mondiale per il commercio e nell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Anche se oggi ho parlato del fatto che va evitato il rischio di basare retorica o decisioni politiche su analogie storiche forzate, non posso tuttavia evitare di essere influenzato da alcune mie esperienze nei governo precedenti. L’invasione dell’Afghanistan da parte della Russia sovietica nel 1979, l’imposizione della legge marziale in Polonia nel 1981 e lo schieramento da parte di Mosca di missili SS-20 hanno contribuito a unire alleati riluttanti, le cui ferme contromisure hanno contribuito a creare le condizioni per drastiche riduzioni degli armamenti nucleari e per il definitivo fallimento e smantellamento dell’Unione sovietica. I comportamenti aggressivi hanno prodotto risultati non desiderati, per l’aggressore. Alla fine dei conti, la Russia oggi si trova di fronte a una decisione: diventare un partner completamente integrato e responsabile nella comunità internazionale o, come ha suggerito Rice, restare una nazione isolata e antagonistica vista dalla maggior parte del mondo come poco più di una stazione di rifornimento del gas per l’Europa. Per gestire le varie sfide che si pongono per gli anni a venire, noi – America ed Europa insieme – avremo bisogno di forza e di solidarietà, come abbiamo saputo dimostrare nel passato. Le nostre politiche e le nostre risposte devono essere un insieme di risoluzione e moderazione, proprio come le proverbiali frecce e rami d’olivo dell’aquila di Truman. Essere fermi ma non cadere in un modello retorico o di comportamento che crei profezie auto-celebrative. Ascoltare le lezioni imparate nel 1914 e nel 1938, ma non impantanarsi nelle stesse. Dobbiamo fare molta attenzione agli impegni che ci assumeremo, ma anche avere la volontà di mantenere gli impegni presi. Nel caso della Nato, l’articolo 5 deve soddisfare i principi che enuncia. Come possono testimoniare i soldati che stanno combattendo in Afghanistan, l’Alleanza atlantica non è un seminario di lavoro o un weekend ricreativo a base di steroidi. Negli Stati Uniti ho chiesto una maggiore attenzione e maggiori risorse dedicate agli strumenti non militari del potere nazionale, e questo non rappresenta un problema da questa parte dell’Atlantico. Per esempio, sono soltanto cinque su 26 gli alleati che soddisfano il requisito della Nato di spendere il due per cento del pil per la difesa nazionale. Pur con le migliori intenzioni da parte dei governi e degli eserciti dei nostri alleati e nonostante tra tutti i membri europei della Nato abbiamo più di due milioni di uomini e donne in uniforme, l’Alleanza fatica a mettere insieme poche migliaia di soldati e qualche dozzina di elicotteri per i comandanti di stanza in Afghanistan. Uno dei trionfi dell’ultimo secolo è stata la pacificazione dell’Europa dopo ere di rovinose e sanguinose guerre. Ma io credo che abbiamo raggiunto un punto di flessione in cui per lo più il continente è andato troppo lontano nell’altra direzione. La demilitarizzazione è passata dall’essere una benedizione al costituire un potenziale ostacolo alla realizzazione di una pace vera e durevole in quanto la debolezza, reale o percepita che sia, costituisce sempre una tentazione per calcoli errati e aggressioni. Con tutte le citazioni di Churchill fatte stasera vorrei a questo punto ricordare le parole di George Washington il quale, nel primo discorso inaugurale al Congresso, ammonì: “Essere pronti alla guerra è uno dei modi più efficaci per perseguire la pace”. Noi siamo alla ricerca di metodi pacifici per risolvere le dispute e bloccare sul nascere le eventuali minacce, ma, come disse Federico il Grande: “La diplomazia senza le armi è come la musica senza strumenti”. Lo scopo adesso deve essere unirci tutti insieme per agire in modo risoluto e prudente: il mondo politico, quello economico e, secondo opportunità, quello militare, per dare forma all’ambiente internazionale e alle scelte di altre potenze. Dobbiamo cercare di prevenire situazioni in cui abbiamo soltanto due tristi scelte: lo scontro o la resa, il 1914 o il 1938. Questo è certamente ciò che sta accadendo alla Russia, ma vale anche per altre situazioni legate alla sicurezza, come l’Iran. Una di quelle tristi scelte si presenterebbe se un regime estremista in possesso di armi nucleari venisse usato per ricattare o innescare una corsa all’armamento nell’intera regione. L’altro scenario è un intervento militare costoso e potenzialmente catastrofico, l’ultima cosa di cui ha bisogno oggi il medio oriente. E’ per questo così importante continuare a esercitare una forte e prolungata pressione economica e politica, per evitare di trovarci in una simile agghiacciante strettoia. Il mondo è un luogo pericoloso e burrascoso. E non intervenendo alcun cambiamento nella natura umana, appare destinato a rimanere tale. Come scrisse nel suo libro “Un uomo chiamato intrepido” uno dei maggiori, seppur poco riconosciuti eroi della Seconda guerra mondiale, Sir William Stephenson: “Forse sorgerà il giorno in cui i tiranni non potranno più minacciare la libertà dei popoli, in cui lo scopo di tutte le nazioni, per quanto diverse saranno le loro ideologie, sarà valorizzare la vita e non tenerla sotto controllo. Se una tale condizione sarà mai possibile, certamente è in un futuro ancora troppo lontano da prevedere. Così, fino a quel giorno migliore o più tranquillo, le democrazie cercheranno di evitare il disastro, se non la totale distruzione, semplicemente mantenendo efficienti le proprie difese”. George Washington, da realista qual era, sarebbe stato d’accordo. E, ne sono certo, anche Winston Churchill.
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