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La Stampa Rassegna Stampa
20.09.2008 La trombetta del patetico Manzella
fasullo come il suo cognome

Testata: La Stampa
Data: 20 settembre 2008
Pagina: 34
Autore: Igor Man
Titolo: «Tzipi, Golda e il copione della pace»

C'è qualcosa di vero nell'autoproclamazione di "vecchio cronista" che Igor Man permette ai suoi pezzi da qualche anno. Non c'è nulla di male nella vecchiaia, se oltre a vecchio non fosse soprattutto patetico, nel rifriggere sempre la solita minestra. Cosa che fa anche nell'articolo di oggi, uscito sulla STAMPA a pag. 34, con il titolo " Tzipi, Golda e il copione della pace ". In fondo Igor Man è come il suo nome, fasullo. Manzella non era sufficientemente esotico per il suo gusto provinciale, ma non basta togliersi un "zella", per essere quello che non si è. Anche qui, il nostro patetico, rilancia il processo di pace attribuendone ritardi e fallimenti a Israele, Arafat & Co. non sono mai stati dei criminali con le mani sporche di sangue innocente, no, loro volevano solo fare la pace con il nemico israeliano, che, però, cattivo, non l'ha mai voluta fare. A leggerlo si ride anche, per la millesima citazione di un'ìntervisa con Golda Meir, riproposta dal nostro patetico cronista, ogni volta presentandola come qualcosa di eccezionale. Il timbro provinciale del quotidiano torinese sta in questo, nel non rendersi conto che un cronista, per essere credibile e autorevole, deve essere l'opposto del nostro Manzella, che continua a suonare la trombetta ad Arafat senza accorgersi che il pubblico che ci credeva si è notevolmente assottigliato. Le sue note stonate sono oggi, appunto, solo più patetiche. Ecco l'articolo:

A mano. Lo spoglio delle schede in Israele si fa a mano. In un paese che in tecnologia è avanti a noi di almeno quarant’anni, quand’è il momento si torna volentieri al pallottoliere. E il pallottoliere ci dice che per la seconda volta nella Storia d’Israele una donna entra nella camera dei bottoni per diventare primo ministro. È l’attuale ministro degli Esteri, sabra cioè ebrea nata in Israele, Tzipora Livni detta Tzipi, avvocato, nata a Tel Aviv l’8 luglio 1958. Dal padre, Eitan Livni, incursore dell’Irgun, deve aver ereditato il gusto dell’audacia, coltivandolo nel mitico Mossad. Sharon la stimava molto e c’è da scommettere che se non fosse sprofondato nel coma, insieme con lei avrebbe costruito quelle solide basi di «consenso generale» senza le quali non è possibile pensare a una «piattaforma» incentrata nella formula «due popoli, due Stati». Gli ultimi, coraggiosi atti politici di Sharon premier confermano la regola del «paradosso logico»: solo un uomo di destra può stipulare col nemico un patto di pace sollecitato dalla sinistra: si veda l’accordo Israele-Egitto, frutto dell’intesa Begin-Sadat.
Il destino è un regista sapiente: se l’allieva di Sharon riuscirà a metter la mordacchia a rivali politici dello spessore di «Bibi» Netanyahu e del laburista Barak, in Medio Oriente si potrà finalmente parlar di pace per edificarla. Oggi si può soltanto incrociar le dita nella speranza che la giovine Tzipi riesca a rendere operativa la formula «due popoli, due Stati»; formula che Golda Meir, la prima donna diventata premier d’Israele, rigettava. Tuttavia, se oggi Golda fosse ancora vivente, c’è da pensare (dopo la «conversione pragmatica» di Sharon) ch’ella si sarebbe rassegnata alla necessità storica di rinunciare al sogno di Eretz Israel. E questo per realizzare quello Stato ebraico, democratico e sionista vaticinato dai «padri fondatori», figli della religiosità pragmatica del kibbutz, del pionierismo populista alla Tolstoj, predicato da Gordon e corretto in senso marxista da Borochov, il teorico del sionismo operaio.
L’11 di maggio 1969, a Tel Aviv, il Vecchio Cronista ebbe la ventura d’intervistare Golda Meir. L’intervista fu alquanto mossa anche se, alla fine, la signora Meir mi congedò con estrema gentilezza (fui anche ammesso, qualche tempo dopo, nella famosa «cucina» di Golda, il suo pensatoio casalingo). A un certo momento formulai la rituale domanda sul destino dei palestinesi, sicuro di sentirmi rispondere, come puntualmente accadde, nel modo seguente: «I palestinesi? E chi sono?». Insomma, «il popolo palestinese, in quanto tale, non esiste; yok, non esiste», secondo la famosa formula dell’ammiraglio turco inviato nel 17° secolo alla ricerca di Malta nel Mediterraneo e che, dopo aver fallito l’impresa, spedì al Sultano un piccione viaggiatore con un messaggio di due parole: «Malta, yok». (Vera o non vera, questa storia raccontatami da Victor Cygielman mi sembra emblematica). «La nazione palestinese non esiste? Ma allora contro chi ha combattuto Sharon in Libano, contro dei fantasmi?», si arrabbiava Arafat. Era il 14 di febbraio 1988 e di quell’intervista voglio citare ancora un brano: «Come ben dice il generale Weizmann, “la pace si fa col nemico, quindi dobbiamo trattare con l’Olp”. Sicché noi palestinesi dobbiamo trattare con gli israeliani, senza precondizioni, alla pari». Così Arafat.
Tranne disastri (vedi il nucleare persiano) sempreché i suoi rivali politici non ne facciano un boccone, soltanto la sabra su cui Sharon scommetteva può rianimare la stanca recita che Israele replica con Abu Mazen, seguendo un copione di routine.

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