Da Il FOGLIO del 17 settembre 2008, un'analisi sulle contrapposte cooperazioni nucleari Russia-Iran e Stati Uniti-India.
Ecco il testo:
Washington. A George W. Bush restano pochi giorni per poter raggiungere l’ultimo obiettivo del suo doppio mandato presidenziale. Se entro il 25 settembre il Congresso non avrà dato il via libera all’accordo di cooperazione tra Stati Uniti e India sul nucleare civile, del dossier dovrà probabilmente occuparsene il suo successore. Dopo quella data, i due rami del Parlamento americano chiuderanno i battenti fino a dopo le elezioni di inizio novembre che riguarderanno non soltanto la Casa Bianca, ma anche il rinnovo di parte dei seggi alla Camera dei rappresentanti e al Senato. Joe Biden, che oltre a essere il candidato del Partito democratico alla vicepresidenza è anche il numero uno della commissione Esteri del Senato di Washington, giura che lui e la maggioranza liberal faranno “di tutto per accelerare al massimo i tempi” e licenziare un accordo raggiunto nei termini di massima già tre anni fa. Tanto il premier indiano, Manmohan Singh, quanto il presidente statunitense hanno dovuto superare le obiezioni di chi – in patria e fuori – metteva in dubbio l’utilità e soprattutto la sicurezza dell’intesa atomica che, con la Russia sempre più lontana dal raggio d’azione dell’Alleanza atlantica, appare sempre più strategica. Qualche settimana fa i paesi fornitori di energia nucleare hanno dato il loro assenso all’accordo di cooperazione indoamericano, indoamericano, con l’eccezione di Austria, Irlanda e Nuova Zelanda, portavoci dei timori di chi – ricordando che l’India è una delle tre nazioni al mondo a non aver firmato il trattato di non proliferazione – non crede che Nuova Delhi possa limitare l’utilizzo di strumentazioni, carburanti e know how di marca statunitense al solo campo civile. L’agenzia atomica dell’Onu, nonostante queste riserve, ha a sua volta benedetto la collaborazione tra Stati Uniti e India, riconoscendo di fatto che – come sostengono a Washington – “Nuova Delhi è un attore responsabile, a differenza di Teheran”. Qualche giorno fa, sempre dall’Aiea, è arrivata un’ulteriore conferma alla linea americana: con un rapporto di sole sei pagine, gli esperti dell’agenzia internazionale per l’energia atomica hanno ammesso tutte le “ambiguità” iraniane, gli “scarsi progressi” fatti nelle investigazioni e la “probabile consulenza straniera” che renderebbe possibile al regime degli ayatollah, qualora questi effettivamente lo volessero, di costruire la prima testata nucleare entro la fine del 2009. Sulla provenienza di quegli “aiuti stranieri” il documento dell’agenzia dell’Onu tace. Interpellato dall’Herald Tribune, un alto funzionario coperto dall’anonimato ha negato che possa trattarsi della Corea del nord o della Libia e anche la rete del pachistano Abdul Qadeer Khan non avrebbe a che fare con i mullah atomici. Lo stesso funzionario nega che si tratti di un governo, ma a Washington è concreto il sospetto che dietro ai progressi iraniani sul nucleare possa nascondersi la Russia. Qualche giorno fa, a Teheran, il ministro degli Esteri di Mosca, Sergei Lavrov, e quello iraniano, Manuchehr Mottaki, si sono incontrati per ribadire che la collaborazione tra i due paesi per la costruzione del reattore di Bushehr (il primo in Iran) “non è mai stata tanto stretta”, lasciando intendere che le divergenze dei mesi scorsi, quando Mosca prendeva tempo adducendo ritardi nei pagamenti, sono state appianate e che ora i russi sono pronti a riprendere le forniture di combustibile. Con una differenza: fino a qualche mese fa Mosca collaborava con Teheran con il sostanziale beneplacito di Washington, che nell’accordo bilaterale di cooperazione sul nucleare aveva riconosciuto alla Russia il diritto di commerciare materiale utilizzabile per la produzione di energia atomica. Da qualche giorno, a seguito delle tensioni sulla crisi georgiana e dell’interruzione dei rapporti tra Mosca e la Nato, quell’accordo è stato congelato proprio dagli Stati Uniti. I sospetti dell’Aiea sulle reali intenzioni iraniane, in questo quadro, potrebbero presto finire per coinvolgere la stessa Russia, che come la Cina ha già fatto capire di non voler sostenere nuove sanzioni contro Teheran, nonostante i nuovi sospetti e l’attivazione di 3.800 centifrughe per l’arricchimento dell’uranio in pochi mesi.
Un articolo di Giulio Meotti sull'introduzione nella legislazione iraniana della pena di morte per apostasia.
Ecco il testo:
E’la formalizzazione di un fenomeno che già da molti anni domina la vita dell’Iran. La messa a morte per legge dei non musulmani e dei convertiti. Così l’Iran tocca l’apice dell’oscurantismo nei rapporti fra la Rivoluzione e le altre religioni, da quando nel 1979 l’ayatollah Ruhollah Khomeini concesse a tutti i sacerdoti, religiosi e religiose cattolici stranieri, un mese di tempo per lasciare il paese. E’ passata inosservata la quasi unanime approvazione al Parlamento iraniano del disegno di legge che sanziona la morte per gli apostati, coloro che abbandonano l’islam e abbracciano un’altra fede, cristiana o zoroastriana. Considerando il voto schiacciante, 196 a favore e 7 contrari, l’iter legislativo è tutto in discesa per una legge unica nella umma. La rivoluzione khomeinista si volge al purismo sunnita, fino a contemplare una punizione assoluta (per chi abbandona l’islam) estranea alla tradizione sciita. L’Iran è più vicino al Pakistan, la “terra dei puri” dove gli apostati hanno vita dura almeno quanto in Arabia Saudita, Mauritania e Sudan. L’Unione europea aveva ufficialmente chiesto a Teheran di abbandonare il progetto di legge, che, per la prima volta, introduce nel codice penale la sentenza capitale per il reato di apostasia. L’Istituto sulle politiche religiose e pubbliche, con sede a Washington, per primo ha reso nota l’iniziativa e precisa che il testo in esame stabilisce la morte per l’apostata-uomo e il carcere per l’apostatadonna. “In passato, la condanna a morte è stata emessa ed eseguita in alcuni casi apostasia, ma mai era stata inserita nella legislazione del paese” dice Joseph Grieboski, presidente dell’Istituto sulle Politiche religiose e rubbliche, con sede a Washington. La legge individua due tipi di apostasia: innata o di origine parentale. Nel primo caso, l’apostata ha genitori musulmani, si dichiara musulmano e da adulto abbandona la fede di origine; nel secondo, l’apostata ha genitori non musulmani, diventa musulmano da adulto e poi abbandona la fede. L’articolo 225-7 stabilisce che “la punizione nel caso di apostasia innata è la morte”, mentre per l’articolo 225-8 “la punizione nel caso parentale è sì la morte, tuttavia, dopo la sentenza finale, per tre giorni il condannato sarà invitato a tornare sulla retta via e incoraggiato a ritrattare. In caso di rifiuto, la condanna a morte verrà eseguita”. “Questa revisione del codice penale costituisce una violazione dei diritti fondamentali dell’uomo da parte di un regime che ha oppresso ripetutamente le minoranze, soprattutto quelle religiose” prosegue Grieboski, aggiungendo che “si tratta di una minaccia non solo per i cristiani convertiti dall’islam, ma anche per le minoranze considerate apostate dalla maggioranza sciita, come i Bahai”, abramitici sincretisti. Un mese fa sono stati arrestati cinque convertiti, fra cui Ramtin Soodmand, figlio di un neocristiano giustiziato. Il presidente Mahmoud Ahmadinejad ha sempre presentato l’Iran come uno dei rari paesi nei quali “le minoranze religiose godono di diritti uguali”. L’Iran in passato ha condannato tre seguaci Bahai a quattro anni di carcere per avere leso la sicurezza pubblica facendo propaganda contro il sistema politico e proselitismo per la loro fede, “con il pretesto di aiutare i poveri”. I Bahai sono la più grande minoranza religiosa dell’Iran, circa 300 mila fedeli. Una religione vietata e perseguitata dalla rivoluzione islamica del 1979. Da allora oltre 200 seguaci sono stati giustiziati, centinaia sono finiti in carcere, decine di migliaia sono stastati privati dei più elementari diritti. Tutte le loro istituzioni sono vietate e luoghi sacri, cimiteri e proprietà sono stati confiscati dal governo o distrutti. Molti Bahai sono stati condannati per avere tenuto lezioni ai loro figli. I giovani non possono iscriversi all’università, se non si dichiarano “islamici”. Nel luglio 1994 Mehdi Dibaj è stato ucciso dopo aver scontato una pena di nove anni per aver rifiutato di abiurare la fede cristiana e di ritornare all’islam. Considerando l’affermazione del religioso sciita Hassan Mohammadi, secondo cui “ogni giorno circa 50 giovani iraniani si convertono in modo segreto al cristianesimo”, la legge sull’apostasia è una clava sulla testa dei non musulmani. Le stime parlano di circa 30 mila protestanti, 17mila evangelici, settemila carismatici e quattromila pentecostali convertiti dall’islam. “Se mi uccideranno, sarà perché ho parlato e non perché ho taciuto”, aveva detto nel 1994 il pastore Haik Hovsepian. Fu ucciso e sepolto in una fossa comune con un musulmano convertito al cristianesimo che Hovsepian aveva difeso pubblicamente. Il convertito, Mehdi Dibaj, era stato giustiziato per aver lasciato l’islam. E’ con il suo sangue che i pasdaran hanno scritto la nuova legge. Nel 1998 il vescovo pachistano John Joseph si sparava alla tempia davanti a un tribunale in cui era stato condannato a morte il cristiano e amico Ayub Masih. Oggi come allora, le ciglia del mondo libero si abbassano sulla sorte degli “infedeli”.
Per inviare una e-mail alla redazione del Foglio cliccare sul link sottostante