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Il Foglio Rassegna Stampa
16.09.2008 Il quotidiano comunista a corto di argomenti
torna ad adossare a Israele i crimini dei falangisti cristiani nella guerra libanese del 1982

Testata: Il Foglio
Data: 16 settembre 2008
Pagina: 0
Autore: Michelangelo Cocco
Titolo: «Memorie DA UN MASSACRO - L'OSPEDALE DELLA STRAGE, UN QUARTO DI SECOLO DOPO»

Il MANIFESTO del 16 settembre 2008 rilancia la falsa accusa a Israele di aver "sguinzagliato" i falangisti cristiani che hanno compiuto il massacro di Sabra e Chatila, essendone dunque il mandante (così come di altri massacri falangisti9.

Ecco il testo:

L'acqua che piove dai soffitti e s'infiltra nei pavimenti dei corridoi fa da rumore di sottofondo, costante. Il fetore dell'immondizia lasciata a marcire in strada penetra nei corridoi bui di quello che un tempo era il fiore all'occhiello della medicina dei campi profughi palestinesi. Benvenuti al Gaza hospital, Beirut. Qui, a due passi da Shatila, nell'adiacente « rue Sabra» , vivono stipate oltre 200 famiglie di rifugiati del 1948. Al piano terra di uno dei due palazzoni che ospitavano il nosocomio, Abu Maher ha messo su un negozio di barbiere e un povero appartamento: due divani, un tavolino, il televisore e poco più. «Era un ospedale eccellente per la chirurgia e il suo reparto di ostetricia, il Ramallah - ricorda l'uomo -. Molti medici, libanesi, palestinesi, cinesi e cubani tra gli altri, venivano a lavorare qui per esprimere la loro solidarietà con la Palestina», continua questo 61enne che in Libano è arrivato dopo essere scappato da Safad, in Galilea, dove viveva con la sua famiglia, cacciata 60 anni fa dall'avanzata delle truppe ebraiche dell' Haganah. Il nosocomio, inaugurato nel 1968, curò anche i fedayyn che, cacciati dalla Giordania all'inizio degli anni '70, attaccavano Israele dal Paese dei cedri, dove si era riorganizzata l'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp). L'inizio della fine del Gaza hospital coincise con l'invasione israeliana del Libano e il massacro di Sabra e Shatila, nel 1982. Abu Maher ricorda che il 16 settembre di 26 anni fa tanti palestinesi che riuscirono a fuggire dall'inferno di Shatila cercarono rifugio proprio nel «Gaza ». Ma la pacifica invasione dell'ospedale da parte di queste famiglie che avevano perduto tutto e i danneggiamenti della struttura le avrebbero assestato un primo duro colpo. Già nel pomeriggio del giorno precedente il massacro, Sabra e Shatila erano stati circondati dall'esercito israeliano, agli ordini dell'allora ministro della difesa Ariel Sharon. Il compito ufficiale dell'operazione «Pace in Galilea», quello di «ripulire» i campi dai combattenti dell'Olp - la maggior parte dei quali aveva già lasciato la capitale libanese fu affidato ai miliziani cristiano-maroniti del partito falangista. Secondo quanto riferì al New York times un'infermiera olandese, per facilitare il lavoro dei miliziani durante la notte le truppe israeliane illuminarono i campi al punto che sembravano «uno stadio durante una partita di calcio». Solo alla fine di due giorni di mattanza si capirono le dimensioni della strage, che secondo le stime più pessimistiche fece registrare oltre 3.000 morti. Di tanti civili scomparsi non si seppe più nulla. Decine furono i cadaveri, orribilmente sfigurati, a cui non si poté dare un volto. L'allora primo ministro israeliano, Menachem Begin, dichiarò: «A Sabra e Shatila dei non ebrei hanno ucciso dei non ebrei, noi cosa c'entriamo?». La dottoressa Ang Swee arrivò al Gaza hospital poche settimane prima del 16 settembre 1982, volontaria per Christian aid. «Il Gaza hospital era l'unico ospedale fino a quel momento risparmiato dalla guerra civile accessibile ai palestinesi», ricorda Swee, in questi giorni di nuovo a Beirut per partecipare alla marcia che oggi attraverserà Shatila per chiedere giustizia per quella strage tuttora impunita. Swee ricorda che «il 16 settembre iniziarono ad arrivare i primi feriti da arma da fuoco, i bambini dilaniati dalle granate. Poi, il 18, l'ordine dei falangisti di evacuare la struttura». «Mio figlio Khaled è morto sotto le macerie della nostra casa, abbattuta dall'artiglieria dei falangisti», racconta Asia Ali Dahweesh. Come in quello degli oltre duemila inquilini del Gaza hospital, nel suo appartamento con le pareti tinteggiate di colori pastello e ricoperte da vecchie foto dei «martiri della resistenza» la corrente elettrica va e viene e non c'è acqua potabile. «Di mio marito Mahmoud Ahmad invece non ho potuto nemmeno riconoscere il corpo, fatto a pezzi come quelli di tanti altri palestinesi», prosegue la donna, scappata da El Houli (Safad) quando aveva cinque anni. A lei, come a tutti gli altri profughi palestinesi che lo desiderino, la risoluzione 194 dell'Assemblea generale delle Nazioni unite dà il diritto di rientrare nella sua casa, oggi nello Stato d'Israele. Alla domanda se spera ancora di tornare al suo villaggio la donna risponde: «Mi hanno cresciuta con la verdura e la frutta della Palestina, per questo il mio corpo è ancora forte: se ne avrò la possibilità, rientrerò subito». Dopo il massacro del 1982, la cosiddetta «guerra dei campi». Nel 1985 il Gaza hospital viene occupato dalle milizie sciite di Amal, che distruggono tutte le attrezzature mediche e ne fanno un punto d'osservazione militare prima di abbandonarlo dopo averne incendiata la gran parte. Sono 12 i campi dove i profughi palestinesi hanno trovato rifugio in Libano dopo essere stati cacciati o fuggiti dalla Palestina in conseguenza del conflitto arabo-israeliano del 1948. L'Unrwa, l'agenzia umanitaria dell'Onu creata per assistere i palestinesi, stima in oltre 225.000 i palestinesi ufficialmente registrati nei suoi campi. Ma in totale - sempre secondo i dati Onu - i rifugiati palestinesi in Libano sono 409.714. Mentre in Giordania e Siria, gli altri due stati dove - oltre alla Cisgiordania e a Gaza - opera l'Unrwa, i palestinesi godono di un certo livello d'integrazione, nel Paese dei cedri le condizioni di vita dei palestinesi sono durissime, tanto che sono 46.204 i casi classificati come di «speciale necessità», in pratica povertà assoluta, interamente dipendenti dagli aiuti umanitari. «Le autorità trattano i campi profughi come focolai di disordine e la presenza dei palestinesi come un problema di sicurezza», spiega Ziad Abdel Samad, che guida le ong palestinesi in Libano. Per Abdel Samad è necessario «estendere i diritti civili anche ai palestinesi». Attualmente sono oltre 70 i mestieri e le professioni che non possono esercitare, così come non hanno diritti di proprietà né di costruire nei campi. A Sidone (200.000 abitanti, dei quali 70.000 palestinesi) i campi restano sotto l'assedio dell'esercito libanese, dopo che negli ultimi mesi si sono verificati scontri tra gruppuscoli ultra-islamisti e combattenti dell'Olp. In visita a Beirut il 28 agosto scorso, il presidente dell'Autorità palestinese, Abu Mazen, ha ribadito la necessità del rispetto della risoluzione 194 dichiarando: «Siamo contrari a una sistemazione permanente dei profughi in Libano». Pochi giorni dopo, un gruppo di deputati libanesi ha consegnato al presidente Michel Suleiman una proposta di emendamento costituzionale per rendere impossibile la permanenza a tempo indeterminato dei palestinesi. Seduto nel suo ufficio nel campo profughi di Mar Elias - una piccola roccaforte della sinistra palestinese - Souheil El-Natour spiega così qusti ultimi sviluppi. «C'è una coincidenza tra la rivendicazione del diritto al ritorno da parte dei palestinesi e la paura della stabilizzazione dei palestinesi suscitata dal sistema comunitario libanese». «L'attenzione per noi è cominciata dopo l'assassinio (il 14 febbraio 2005, ndr) dell'ex premier libanese Hariri». «Da quel momento - continua il direttore dello Human development center -, i due blocchi contrapposti hanno avuto paura che i palestinesi potessero schierarsi con l'una o l'altra parte». El-Natour spiega che la rivendicazione del diritto al ritorno, che le autorità israeliane negano da sempre ai palestinesi perché «porterebbe alla fine dello Stato ebraico», ha un triplice obiettivo: gli israeliani, ai quali secondo l'ex funzionario del Fronte democratico per la liberazione della Palestina bisogna ricordare che non ci sarà vera pace senza la soluzione del problema dei rifugiati, i negoziatori palestinesi, presso i quali ritiene necessario tenere viva la questione, e le autorità libanesi, a cui intende ricordare che non vogliono restare in Libano.

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