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Shangai addio Angel Wagenstein
Traduzione dal bulgaro di Roberto Adinolfi
Baldini Castaldi Dalai Euro 18
C’è una vecchia storiella ebraica che inizia con una domanda (qui persino l’umorismo si fonda sull’interrogazione e non sulle certezze) più o meno così: “Come mai ci sono tanti ebrei che suonano il violino?” Tanto per cambiare, anche la risposta è una domanda, e niente affatto retorica: “Hai mai visto qualcuno scappare con un pianoforte in spalla?”. A dire il vero, in queste ultime generazioni la storia, quella della musica e quella degli ebrei messe insieme, ha regalato anche dei pianisti talentuosi, come a dire che finalmente ci si può permettere di non pensare a levar le tende in fretta e furia. Ottimismo e/o prudenza a parte, con la musica il popolo ebraico ha una confidenza antichissima, almeno da re Davide e dalla sua arpa in poi. E la lettura sinagogale del testo sacro, così come la voce della preghiera, sono musica da sempre. Complice anche il divieto biblico di fare immagini, la musica è sempre stata l’arte prediletta dai figli d’Israele in diaspora, e non a caso la giornata europea della cultura ebraica da poco trascorsa aveva scelto proprio lei come filo conduttore, per quest’anno.
Filo conduttore, la musica lo è anche di un romanzo appena pubblicato in italiano da Baldini Castaldi Dalai: s’intitola Shanghai addio e ne è autore Angel Wagenstein. Classe 1922, Wagenstein ha trascorso l’infanzia a Parigi, è stato partigiano in Bulgaria, il suo Paese, e dopo la guerra ha fatto il regista e lo sceneggiatore. In effetti, il romanzo ha spesso i tratti del copione: scene che si susseguono rapide, ritmo incalzante. Vi si narra una vicenda calcata sulla realtà, una storia di lontananze estreme. Pochi sanno, infatti, che fra i luoghi ai quattro angoli del mondo dove gli ebrei si rifugiarono in fuga dagli orrori nazisti, ci fu anche la città cinese che questo romanzo porta nel titolo.
Ventimila ebrei tedeschi e austriaci approdarono nel “degradato quartiere di Honk Yu”. Non si trattò certo di un esilio dorato, tutt’altro. Ma almeno fu la salvezza. Fra questi profughi c’era il grande violinista Theodor Weissberg, che nella Notte dei Cristalli suona con l’orchestra di Dresda la sinfonia degli Addii di Haydan. Da quel giorno, anzi quella notte, quando viene arrestato con gli altri colleghi ebrei e poi internato a Dachau, la musica per lui e il suo violino diventa anche qualcosa d’altro, di terribilmente nuovo.
La cifra di un “odio mortale”: “A loro Hans, canticchiava allegramente il motivetto servendosi, per scandire il tempo, di un bastone con cui ogni tanto, dimostrando un preciso senso del ritmo, percuoteva la schiena degli sventurati ritardatari”. Weissberg esce poi dal campo grazie all’arianissima moglie, e i due partono per la Cina. Come Hilde Braun, attrice e modella, anche se quasi nessuno sapeva di lei che era ebrea. Insieme a loro, altri personaggi, più o meno ambigui, affollano il romanzo.
Elena Loewenthal
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