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Morire per Dio Daniel Boyarin
Il Melangolo Euro 20
Poco o niente. Nelle migliaia di pagine scritte dai maestri ebrei di età tardoantica non c’è quasi traccia del cristianesimo. Qualcuno l’ha definito il silenzio più fragoroso della storia giudaica. In effetti, i rabbi si lasciano sfuggire solo qualche frase, come se quella nuova fede, nata nel cuore della Palestina, fosse un fenomeno trascurabile. E’ difficile spiegarsi le ragioni di questa reticenza, tanto più che, dall’altra parte, nella letteratura dei padri della Chiesa, degli ebrei si parla, eccome. Certo, almeno fino a tutto il III secolo, i rapporti di forza erano in favore del giudaismo, che, nell’impero romano, godeva dello statuto di religio licita, mentre quella dei cristiani era solo una superstitio. Daniel Boyarin, talmudista disinibito e alla moda, rimette sul tavolo – anzi sul lettino dello psicanalista – l’inquietante silenzio rabbinico a proposito del cristianesimo. Il suo Morire per Dio è un libro a tesi, ennesimo tributo alla decostruzione delle fonti, croce e delizia degli ultimi decenni. Boyarin, che è stato allievo del grande storico Saul Lieberman, sa muoversi con disinvoltura tra gli antichi testi ebraici e aramaici. Tuttavia l’onesto lettore è preso da un certo senso di smarrimento, quando viene messo al corrente, suo malgrado, del quadro esistenziale da cui è scaturita la ricerca: “Tutti i libri che ho scritto finora sono nato nel corso della terapia psicoanalitica presso la dott.ssa Ruth Stein. Il compimento di quest’opera ha coinciso con la fine di quella terapia decennale che mi ha trasformato la vita”. Forse per questo Boyarin pensa di cambiare la nostra comprensione dei rapporti tra cristianesimo e giudaismo nei primi secoli dell’età volgare sulla base di un dramma familiare, finalmente spogliato da transfer e rimozioni. La storia, quasi non occorre dirlo, è quella di due fratelli che si amano e odiano, e combattono per la primogenitura. Ma attenzione, almeno nella ricostruzione di Boyarin – ed è questa la parte migliore del libro – vince chi perde. L’archetipo è infatti quello, paradossale, della vicenda di Giacobbe e Esaù, in cui il vecchio viene privato dei propri diritti, mentre il più giovane trionfa. Qual è, allora, la vecchia fede e quale la nuova? Quasi tutti, oggi, risponderebbero che fu il cristianesimo a nascere dall’antico ceppo del giudaismo, con tutte le disarmonie di un credo minoritario destinato a trasformarsi, a poco a poco, in religione di ambizioni universali. Ma questa idea è, per Boyarin, troppo semplice. Propone dunque un rovesciamento dei ruoli, in virtù del quale il giudaismo rabbinico potrebbe addirittura essere il fratello minore del cristianesimo. L’effetto sorpresa è garantito, e il piglio californiano dell’autore, professore a Berkeley, tiene piacevolmente banco. Così apprendiamo che “tutti i giudaismi e tutti i cristianesimi hanno in comune caratteristiche che ne fanno un’unica famiglia semantica, in senso wittgensteiniano”, e che Boyarin vuole proporre, “per usare una metafora linguistica, una teoria “ondulatoria” della storia cristiano-ebraica”. Riavuti dal primo stupore, ci rendiamo conto che di tutto questo c’eravamo già accorti da un po’. Che non fosse “una storia unica, limpida, chiara”, come afferma Boyarin, non è davvero una novità. Non si può negare, infatti, che il quadro dei rapporti tra le due fedi sia sfumato e contraddittorio, almeno sino alla grande svolta alla fine del IV secolo, quando il cristianesimo divenne religione ufficiale e il giudaismo rimase confinato in un ruolo di subordinazione sociale e politica. E’ noto altresì che alcuni rabbi nutrirono simpatie per la chiesa nascente e che i giudeo-cristiani furono essenziali per la diffusione del vangelo del messia di Nazareth. E’ anche possibile, come non si stanca di ripetere Boyarin, che l’atteggiamento cristiano verso il martirio abbia influenzato l’idealizzazione di alcune figure ebraiche, e in primo luogo il profilo di martire di rabbi Aqiva, vittima delle persecuzioni romane nel II secolo. Ma tra questi doveroso distinguo storiografici e l’ambizione di ribaltare i rapporti genealogici ce ne corre, e il salto mi pare, per la verità, azzardato. In effetti, almeno in alcuni casi, Boyarin giunge a conclusioni infondate, come quando afferma che non ci sarebbe una “ragione a priori per cui il giudaismo rabbinico avrebbe dovuto considerare inaccettabile credere che Gesù fosse il messia”. Lo storico dimentica qui che, per i rabbi, il fallimento politico di Gesù (la sua incapacità di liberare gli ebrei dal giogo straniero) ne contraddiceva fatalmente il ruolo messianico. Fu infatti proprio sulla questione del rapporto tra messia e libertà politica del popolo ebraico che si giocò un’accesa partita teologica tra giudaismo e cristianesimo. Il buon senso fuori moda, secondo cui ciò che viene prima è più vecchio, sembra insomma destinato a resistere anche alla new-age della filologia.
Giulio Busi
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