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Kalooki nights Howard Jacobson Cargo, pagine 568, e 20, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra M a non siete stanchi di parlarvi addosso? Per quanto tempo ancora ci ferirete i timpani con il vostro esibizionismo ebraico? Per voi non esiste argomento più interessante? Ecco il genere di domande che ogni scrittore ebreo prima o poi si sentirà rivolgere. Tanto che i più solerti tra noi, giocando d'anticipo, se le auto-infliggono. E tra questi certo anche Howard Jacobson, a giudicare dal suo Kalooki nights (Cargo, pagine 568, e 20, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra), romanzo che s'iscrive in quel genere ipercollaudato che va sotto il nome di «romanzo ebraico». Da quando il compianto William Styron scrisse che L'uomo in bilico di Saul Bellow segnava una svolta nelle lettere americane, il «romanzo ebraico» ne ha fatta di strada. Traversando un'energica giovinezza, una spettacolare maturità, per intraprendere, in fine, il declino. E mi chiedo se tale tramonto in atto basti a spiegare l'attuale proliferazione di romanzieri ebrei che, nella migliore delle ipotesi, denunciano, rispetto ai predecessori, una perdita di energia. Certo è che le ultime prove di eccellenti scrittori quali Gary Shteyngart o Michel Chabon non sono affatto confortanti. Visto che quell'uso sapiente degli stereotipi rende i loro romanzi così intollerabilmente fichetti. E Jacobson? Con i suoi sessantacinque anni suonati, la sua origine britannica, il suo librone pieno di sferragliante giudaismo, che spazio trova in questa famiglia? Qualcosa mi dice che il suo talento si situi una spanna al di sotto rispetto ai maestri della letteratura ebraica (un po' come accadeva al Barney di Richler, a un passo dai campioni). Ma, allo stesso tempo, il suo libro sprigiona una forza vitale che lo sottrae alla schiera di epigoni di talento, e lo rende originale in un modo a dir poco struggente. A questo punto temo di dover confessare l'origine personale del mio morboso interesse per Jacobson: non lo conoscevo ancora quando un critico americano, nello stroncare il mio romanzo, scrisse qualcosa tipo «Dopo Jacobson, eccone un altro che si guarda il suo peloso ombelico ebraico!». Una frase profetica visto l'ombelicale sintonia che ho avvertito leggendo Kalooki nights, che rischia di offuscare il mio senso critico (e di questo vi chiedo scusa). Il Narratore di Kalooki nights si chiama Max, è un vignettista di Manchester, pieno di conti in sospeso: con l'esistenza, la famiglia, un amico talmente preso dall'Olocausto da aver gassato i genitori, una guarnigione di mogli, e soprattutto una vita che sarebbe potuta andare meglio ma che è andata così. Insomma un gran libro con tutti i difetti-non-difetti dei grandi libri: per esempio la discontinuità che alterna pagine memorabili ad altre assai meno illuminate. Non ha un plot (proprio come la vita!) ma i dialoghi, Dio, i dialoghi... Jacobson è un dialoghista di genio. Tra Neal Simon e Tennessee Williams. Ecco, pur avendo svolto il mio compitino, farcendo il racconto della trama con qualche commento ammirato, resta il fatto che trovo Kalooki nights un libro da me ingiudicabile: per eccesso di familiarità. Come evitare di sciogliermi in un moto di empatia leggendo: «Gelosia e invidia sono due sentimenti così intrinseci alla natura umana che potremmo tranquillamente includerli in ogni valutazione del nostro comportamento nei confronti degli altri — e di quello degli altri verso di noi — senza bisogno di tirarle in causa ogni volta»? O come rimanere indifferente quando Max afferma che lui vede «la storia dell'umanità nei termini di una battaglia tra gli ebrei e tutti gli altri! »? Una frase che avrebbe potuto dire mio fratello e che forse qualche volta ha detto? Eppure il vicolo cieco in cui mi sono ficcato mi offre l'opportunità per una riflessione generale che parte da Kalooki nights e approda chissà dove. Perché c'è qualcosa che distingue questo romanzo dai suoi tanti cugini americani. E, cioè, che si tratta di un libro che non si vergogna della propria tristezza, che la esibisce impudicamente. Il mondo di Jacobson — comicità a parte — è immerso in una angusta desolazione. Che lui non ha interesse a dissimulare. Rifuggendo trionfalismi. Rinunciando a qualsiasi ammiccamento seduttivo. La mancanza di charme. Ecco il punto cruciale. È così che Jacobson marca la differenza tra l'ebreo americano e l'ebreo europeo (chiedo scusa anche per questa generalizzazione). Il primo, gonfio della propria potenza, il secondo, ricurvo su se stesso. Il primo che avverte un legame vivo con un continente così generoso, il secondo pieno di diffidenza nei confronti EBREO ORTODOSSO SULLA METROPOLITANA DI NEW YORK (CORBIS) del proprio. L'effetto che tutto questo produce sull'ispirazione letteraria è allo stesso tempo imprevedibile ed emblematico. Le opere di grandi scrittori europei di origine ebraica come Koestler, Schwartz-Bart, Cohen emanano un alone di ineluttabile disfatta. Sono angosciate e angoscianti. Al contrario non c'è avversità che i protagonisti ebrei dei grandi romanzi americani non affrontino con piglio risoluto, dinamico, vitalista. Pensateci: il Moses Herzog di Bellow, il Mickey Sabbath di Roth, l'Alvy Singer di Woody Allen irradiano lo stesso fascino sprigionato dai loro fascinosi autori. I quali poi magari per snobismo rivendicano la propria affiliazione a Kafka, a Schulz, a Levi e così via... ma che noi avvertiamo assai più vicini a Melville o a Sherwood Anderson. Un altro miracolo americano: aver trasformato gli ebrei in persone sicure di sé. Così perfino lo squallore dei sobborghi chicaghesi nelle mani di Bellow diviene epico; laddove quello esibito dalla Manchester di Jacobson è solo squallido. Insomma ecco a voi l'ebreo europeo, nella sua peggior forma, che sacrifica l'epica sull'altare della tragedia che lo pervade. Come dimostra anche il trattamento da lui riservato alla Shoah. «Sì, va bene, ma quale ebreo non è ossessionato dallo sterminio nazista? » vi chiederete con stizza. E sia. Ma un conto è essere ossessionati dal pensiero di quel che ti sarebbe potuto capitare se fossi vissuto in un certo momento storico in quel determinato posto, un altro è essere ossessionati da qualcosa che ti riguarda personalmente. I campi di sterminio sono lì. Per raggiungerli, non devi prendere l'aereo, basta un vagone piombato e una buona organizzazione. Tale geografica incombenza rende quotidianamente opprimente il rapporto dell'ebreo europeo con il nazismo e con la Storia. Non stupisce allora che l'americano Littell, per scrivere il suo terrificante capolavoro, sia ricorso alla lingua francese che sentiva forse più adatta alla circostanza, più tragica e meno epica. Evidentemente non voleva derubare gli europei del loro maledetto massacro. Perché erano europei i massacratori ed europei i massacrati. Questo mi spinge a un'ultima avvertenza: chi leggerà il romanzo di Jacobson (spero lo facciano in molti) sarà irritato dalla fissazione del protagonista per tutto ciò che è tedesco. Troverà forse tale insistenza pleonastica e di cattivo gusto. Mi permetto di invitarlo all'indulgenza: è così che l'ebreo europeo vive la sua condizione di sopravvissuto. Siamo pochi, incazzati, anacronistici, nichilisti e, sebbene moriremmo dalla voglia di farlo, non riusciamo a dimenticare. E allora finisce che ti addormenti ogni sera con il terrore che qualcuno, nel pieno della notte, ti venga a prendere per condurti in quel posto di cui tutti ti parlano da quando hai messo piede sulla Terra. E che ti svegli al mattino nella luce incerta del pericolo scampato. Un giorno in più strappato al destino. Alessandro Piperno Corriere della Sera |
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