La resistenza delle donne irachene ad Al Qaeda l'analisi di Giulio Meotti
Testata: Il Foglio Data: 12 settembre 2008 Pagina: 2 Autore: Giulio Meotti Titolo: «In Iraq, l’ultima resistenza ad al Qaida è in mano alle donne»
Da Il FOGLIO del 12 settembre 2008:
Strappano dalle spalle gli zainetti esplosivi. Bloccano le bombe umane ai mercati e davanti alle moschee. Rifiutano l’ideologia fondamentalista. Sono le donne irachene che stanno opponendo ad al Qaida la resistenza più dura in questo momento. Secondo Abdul-Lateef Riyan, portavoce del comando alleato a Baghdad, sono 49 le donne che si sono fatte esplodere per compiere attentati dal 2003 a oggi, ma di queste quasi la metà sono entrate in azione nel solo 2008. Il governo iracheno ha incoraggiato la formazione delle “Banat al Iraq”, le figlie dell’Iraq, 500 donne con il compito di contrastare il jihad rosa. Sono vedove, madri, orfane, sorelle e fidanzate unite tutte dall’odio verso al Qaida, la cui violenza e brutalità le ha strappate dall’ombra in cui la tradizione islamica le aveva relegate. Solo una donna può perquisire un’altra donna che indossa l’abaya, il tradizionale costume arabo che le copre da capo a piedi. Per questo motivo, anche in Israele, Hamas e il Jihad islamico hanno utilizzato numerose donne. Dopo che al Qaida le ha ucciso il marito, Liqae Gazhi si è offerta volontaria, fra le prime. “Sono più forte ora di prima”. Uno dei metodi preferiti per reclutare le donne è sposarle e disonorarle al punto di costringerle a non voler più vivere. Ci sono stati casi di donne che si sono immolate sotto la minaccia di uccisione di uno dei loro figli. In primavera usarono due disabili mentali. Gli attentati del mese scorso sono stati quasi tutti portati a termine da attentatrici suicide. “Quasi un milione di donne in Iraq sono vedove o divorziate,o hanno i mariti scomparsi”, dice Samira al Musawi, deputata sciita che presiede la commissione Affari femminili. Una stima che comprende le vedove del conflitto Iran- Iraq negli anni Ottanta. Il primo a teorizzare l’impiego delle donne fu il giordano Abu Musab al Zarqawi. Mentre seminava dolore e morte in Iraq, il colto decapitatore dedicò versi alla famiglia (“sono qui, o madre/ sono qui, o sorella”) che parlano delle lacrime di una ragazza “pura come la neve”. Il simbolo delle irachene che non si sono piegate ad al Qaida è una ragazzina di quindici anni di nome Raniya, ha scelto la vita nella città più pericolosa del mondo, Baquba, provincia di Diyala. Raniya ha chiesto ai militari di disinnescarle i fili collegati all’esplosivo che le pendevano dal vestito. L’obiettivo doveva essere una scuola gremita di bambini. Quando le hanno chiesto chi fosse stato ad armarla, Raniya ha risposto: “Giuro su Allah che non lo so, erano stranieri”. Arabi stranieri, non iracheni. Sognava di fare il medico. Ha incontrato l’uomo sbagliato, l’ha costretta a sposarlo, poi a farsi vestire di morte e dinamite. “Il martirio è la cosa giusta da fare secondo mio marito”, ha detto Raniya in lacrime. “Mi disse che in Paradiso ci sono donne angeli dalla pelle chiara e occhi neri. Un Paradiso simile a un giardino pieno di fiori, due fiumi e uno di miele”. Con i suoi venti chili di tritolo, Raniya avrebbe fatto una strage. “Mi hanno portato al mercato in bus, mi hanno messo l’esplosivo ma detto che non sarei esplosa. Poi dissero che andavano a fare spese”. Come ha spiegato il colonnello Sattar Jabbar, che comanda un reparto di polizia ad al Abara, quasi tutte le “figlie dell’Iraq” sono vedove di poliziotti iracheni assassinati da al Qaida. Al dicembre del 2006, la cifra ufficiale era di dodicimila poliziotti assassinati. Queste donne non possono portare armi, lavorano a mani nude. Per togliere dalle spalle di altre donne i congegni di morte, per setacciarne i telefonini con cui a distanza i terroristi azionano le bombe. Sono pattuglie miste di sunnite e sciite. Saleemah Hafeth Hassan ha perso due fratelli per mano dei qaidisti. “Il pericolo è parte di me. Se non aiuto il mio paese, chi lo farà?”. A marzo ci fu il battesimo di questa brigata rosa. Decine di migliaia di pellegrini si riversarono nel quartiere di Adhamiya, compreso il premier Nouri al Maliki, a festeggiare il compleanno del Profeta. In mezzo alla folla decine di donne rovistavano fra gli abaya femminili. Quando un anno e mezzo fa gli americani ripresero Baquba, capitale dell’autoproclamato “stato islamico dell’Iraq”, in città quel giorno le donne si avvicinavano ai soldati con in mano le foto dei figli scomparsi, portati via dai terroristi, ovunque la vita sembrava persa. Al Qaida aveva ucciso coloro che guidavano i camion del ministero dell’Agricoltura, chi puliva le strade per conto del governo, chi veniva sorpreso a fumare. Una settimana fa proprio a Baquba la polizia ha diffuso la lettera che l’emiro di al Qaida locale, Abu Dawood, ha scritto a una donna di nome Umm Omar. “Buone notizie per te, cara Umm Omar. Tua sorella è diventata martire e noi preghiamo perché tu segua il suo sentiero”. Umm Omar ha rifiutato di farsi esplodere. “Devo essere la madre e il padre dei miei figli. Perché dovrei farmi saltare in aria?”. Una delle prime manifestazioni della rivolta contro i terroristi venne proprio dalle donne. A sud di Baghdad, sulle rive del fiume Eufrate, furono le madri irachene a battere per prime con le canne di plastica contro i lampioni e altri oggetti di metallo per segnalare la presenza di terroristi. Un incessante ticchettio si allargò di casa in casa e di villaggio in villaggio. Come disse il generale Jim Huggins, “questa è gente che ne ha avuto abbastanza”.
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