La situazione politica interna di Israele è analizzata su L'ESPRESSO datato 18 settembre 2008 da Meron Rapoport, giornalista del quotidiano Ha'aretz, espressione della sinistra israeliana.
Ecco il testo;
Tzipi Livni, 'la nuova Golda Meir' nell'iperbole un po' enfatica dei suoi fan o Shaul Mofaz, l'ex generale dal pugno di ferro? Israele cerca la sua guida e spera di trovare un nuovo uomo (o donna) forte capace di tenere la barra dritta in un momento in cui il Paese sembra sospeso tra un accordo con i palestinesi impossibile da trovare, la sfiducia totale nella classe dirigente, un premier, Ehud Olmert, che rischia un'incriminazione per corruzione, frode e abuso d'ufficio.
Il momento è difficile (quando mai ce n'è stato uno facile per lo Stato ebraico?) e paradosso vuole che la scelta del futuro primo ministro ricada sulle spalle di sole 73 mila persone (su sei milioni di abitanti), cioè gli iscritti a Kadima, il partito centrista fondato tre anni fa da Ariel Sharon prima del coma nel quale tuttora è sprofondato. Saranno loro a votare, il prossimo 17 settembre, per le primarie e a scegliere il nuovo leader in sostituzione di Olmert, fiaccato dalle inchieste della polizia contro di lui. Essendo Kadima il più importante partito della coalizione al potere, il leader sarà anche indicato come futuro premier. Sempre che riesca a tenere unita la maggioranza e a evitare le elezioni anticipate, che secondo alcuni analisti sono inevitabili.
Mai come in questi tempi la classe politica israeliana è stata tanto screditata agli occhi di un'opinione pubblica che assiste quasi indifferente ai balletti di potere di personaggi che non hanno nulla del carisma di chi li ha preceduti alla guida di Israele. Gli stessi giornali dedicano più spazio alle notizie di cronaca nera (tre casi in due settimane di madri che hanno ucciso i figli) che allo scontro Livni-Mofaz. Tzipi, ministro degli Esteri, 50 anni, cresciuta nel Likud e poi trasferitasi in Kadima per seguire il suo mentore Sharon, è accreditata di un vantaggio di venti punti stando all'ultimo sondaggio del quotidiano 'Haaretz'. Anche se va sottolineato che in consultazioni 'chiuse' con un numero limitato di elettori, spesso i pronostici vengono clamorosamente ribaltati. Successe ad esempio due anni fa quando l'attuale presidente Shimon Peres era accreditato di un vantaggio di 24 punti sul sindacalista Amir Peretz nelle primarie del partito laburista. E perse.
Shaul Mofaz, nonostante le previsioni per lui negative, ostenta sicurezza. Ha radunato, verso la fine della sua campagna elettorale, una serie di fedelissimi e alcuni giornalisti in una villetta di Gerusalemme per brindare: "Fra pochi giorni sarò il primo ministro perché Israele ha bisogno di una solidità nazionale contro tutti coloro che vogliono annientarci". Attualmente fa il ministro dei Trasporti ma è al suo passato guerriero che attinge per ricavare consenso. Nato a Teheran nel 1948, emigrato in Israele nel 1957, ha combattuto nella guerra dei Sei giorni, in quella dello Yom Kippur, in Libano (1982) e ha partecipato alla mitica operazione Entebbe. È stato paracadutista e membro delle truppe d'élite prima di scegliere la politica e di scalare, stando nel Likud, tutti i gradini fino alla poltrona di ministro della Difesa dalla quale ha guidato il ritiro dei coloni israeliani dalla Striscia di Gaza.
L'esperienza militare è, da sempre, un biglietto da visita rassicurante per gli elettori in Israele. Mofaz la accompagna ad un decisionismo senza mediazioni. Era sulla tolda di comando durante la Seconda Intifada e pare non conoscere le tecniche del dialogo. Promette, in verità: "Bisogna continuare i negoziati coi palestinesi". Ma alle sue condizioni sono impossibili: "Sull'unità di Gerusalemme non possiamo e non dobbiamo fare concessioni. Gerusalemme unita rimarrà l'eterna capitale di Israele". Frase che è una pietra tombale su qualsiasi trattativa. Ambiguo sulla possibilità di un accordo con la Siria, lancia spesso e volentieri i suoi strali contro l'Iran, il Paese che gli ha dato i natali. Anche durante la riunione nella villetta di Gerusalemme ha ribadito: "L'obiettivo principale di Teheran è quello di annientare Israele". Non ha mai escluso di intervenire coi bombardamenti per impedire che gli ayatollah arrivino ad avere la bomba nucleare. I falchi presenti hanno chiosato soddisfatti: "Mofaz è l'unico a puntare una pistola alla tempia degli iraniani".
A parole, una differenza abissale con Tzipi Livni, tanto che a fatica si riesce a immaginarli membri dello stesso partito. Tzipi certo non ha un passato da colomba. È nata in una famiglia assai conosciuta in Israele: il padre, Eitan, fu un noto militante dell'Irgun, organizzazione sionista che si rese responsabile di episodi anche violenti durante il mandato britannico. A destra ha sempre militato e appartiene a quell'eredità la sua strenua opposizione a qualunque concessione sul diritto di ritorno dei profughi palestinesi in Israele. Poi la conversione su Kadima ha addolcito il suo vocabolario politico. Nei discorsi pubblici evoca spesso la "necessità di un accordo di pace con i palestinesi al più presto. Il nostro interesse è quello di arrivare alla soluzione due popoli per due Stati". Si presenta agli elettori come colei che, assieme ad Olmert guida la trattativa con la controparte, l'ex premier palestinese Abu Ala e il presidente Abu Mazen. I critici la attaccano per la sua abilità nello sfilarsi quando bisogna prendere una posizione netta. Non si è mai espressa apertamente sulla delicata questione di Gerusalemme. Circa la conduzione della guerra in Libano, benché rivestisse il ruolo chiave di ministro degli Esteri, ha cercato di far ricadere tutte le responsabilità su Olmert, chiedendone a gran voce le dimissioni. Tra i due le divergenze di vedute sono diventate quasi un odio esplicito.
Olmert non si è dimesso per il Libano. Lo farà, dopo le primarie, per le imbarazzanti rivelazioni sui 150 mila dollari che l'amico americano Morris Talansky gli ha donato per la campagna elettorale e che ha invece usato privatamente. La sua popolarità era scesa ai minimi storici mai toccati da un premier israeliano. Chiunque sia il successore, gli lascia un'eredità scomoda. C'è l'Iran, in cima alle preoccupazioni. E c'è il nemico della porta accanto. Gaza non è affatto pacificata. E Hussam Khader, leader di Fatah da poco liberato, evoca il rischio di una "Intifada di Al Qaeda in confronto alla quale le attività terroristiche di Hamas assomiglieranno a giochi per bambini". Se si vorrà arrivare a una pace con i palestinesi, o almeno con la loro parte disponibile alla mediazione, saranno indispensabili 'dolorose concessioni', al minimo un altro ritiro parziale di coloni dalla Cisgiordania. Per qualunque tipo di accordo, comunque, ormai è chiaro, non potrà essere rispettata la data fissata dal presidente americano uscente George W. Bush, cioè la fine dell'anno in corso.
Tutto questo aspetta la Livni o Mofaz. Sempre ammesso che gli altri partner della coalizione, in primis i laburisti di Ehud Barak, decidano di proseguire con l'esperienza di governo e di portarla alla scadenza naturale del novembre 2010. Ne avrebbero tutto il vantaggio. Eventuali politiche anticipate (sarebbero messe in calendario per la primavera) favorirebbero infatti la destra, il Likud di Bibi Netanyahu, oggi all'opposizione ma accreditato dei favori del pronostico stando ai sondaggi. Di tutto questo gli israeliani non si curano. Fanno affari, trascurano la politica e leggono avidamente le pagine della cronaca nera. Come se potessero permettersi un intervallo prima che la prossima crisi nell'area bussi alle porte.
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