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La Stampa Rassegna Stampa
11.09.2008 Tornano di moda le fiabe
il viaggio in Medio Oriente di Jared Cohen e un'ingenua "soluzione" ai problemi del fondamentalismo e del terrorismo

Testata: La Stampa
Data: 11 settembre 2008
Pagina: 16
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Quei ragazzi della Jihad ? Uguali a noi»
La STAMPA dell'11 settembre 2008 pubblica un'intervista di Maurizio Molinari a Jared Cohen, autore del libro "Children of Jihad", che racconta un suo viaggio in Medio Oriente.
Cohen, molto ingenuamente, crede che l'uso della tecnologia digitale e la comunicazione tra i giovani occidentali e mediorentali possano annulare l'effetto della propaganda, dell'indottrinamento e dell'incitamento alla violenza fondamentalista.

Ecco il testo:


Ventisette anni, ebreo, americano e appassionato di Medio Oriente. Jared Cohen è andato alla scoperta dei giovani che abitano in Iraq, Iran, Siria e Libano e ora afferma che «ciò che ci accomuna è più di quanto ci divide». Il risultato è «Children of Jihad» (Figli della Jihad, edito da Gotham Book) nel quale suggerisce ai coetanei americani di usare la tecnologia per «entrare in contatto con chi ci cerca» perché «la maggioranza di loro è diversa dai terroristi che ci hanno colpito l’11 settembre».
Chi sono i figli della Jihad?
«Ho scritto questo libro per scoprire e raccontare chi sono i giovani in Medio Oriente, una regione dove il 60 per cento degli abitanti ha meno di 30 anni. Il Medio Oriente è imprevedibile, non sappiamo da che parte andrà. Ma i giovani conteranno molto sulla direzione di marcia che si prenderà. I giovani che ho incontrato nei Paesi di quella regione vivono nell’era digitale, si interessano a cosa avviene nel mondo e crescono più inter-connessi all’universo esterno rispetto alle generazioni precedenti. Sono andato in Iran, Iraq, Libano per conoscerli meglio e ho scoperto che sono molto simili ai loro coetanei americani. Fanno le cose in maniera simile e pensano spesso nello stesso modo»
Ci parli delle somiglianze che ha trovato. Quali sono?
«In primo luogo sono simili le differenze fra laici e religiosi, come fra politicizzati e non. Sono un giovane ebreo del Connecticut e ho ritrovato in Libano, Iran e Iraq la stessa divisione in gruppi con interessi comuni che distingue i giovani americani. Inoltre nel Medio Oriente, come qui in America, i ragazzi hanno innato il senso dell’avvertura e dell’appartenenza. Vogliono esplorare e riconoscersi. Come anche ribellarsi ai genitori per scoprire quale è il loro ruolo nel mondo. Ma forse ciò che più mi ha colpito è quanto siamo simili nella tecnologia».
Ci faccia qualche esempio...
«In America siamo nel bel mezzo di una campagna presidenziale nella quale i giovani sono protagonisti in numero senza precedenti grazie all’uso di Internet, delle nuove tecnologie che consentono di creare gruppi, conoscersi, comunicare. Ma l’America non è l’unico Paese al mondo dove i giovani usano la tecnologia. Avviene in tutto il Medio Oriente. Che si tratti di cellulari, Internet o parabole satellitari per le tv i giovani del Medio Oriente adoperano la tecnologia per riunirsi, a volte in maniera rudimentale, per esprimersi e esplorare quello che considerano il futuro».
Cosa pensano del terrorismo e della Jihad che hanno generato gli attacchi dell’11 settembre?
«I giovani impegnati nell’estremismo islamico sono una percentuale molto piccola. Proprio come qui in America è una esigua minoranza che sfida lo status quo, le istituzioni. Dopo l’11 settembre 2001 i media hanno esaltato l’esistenza di questa minoranza di estremisti in Medio Oriente portandoci a confonderla con la maggioranza della popolazione. Se c’è un sentimento che la maggioranza condivide è di non essere compresa dall’Occidente, ma non si tratta certo di terrorismo. Basta mettere piede in Iran, Siria, Libano, Iraq e la prima cosa che i giovani ti dicono è "noi non siamo terroristi". Subito dopo cercano di interagire, di trovare elementi comuni. I giovani sono ben consci del fatto che l’Occidente sospetta di loro».
Insomma, lei sta dicendo che il radicalismo islamico è estreneo alla maggioranza dei giovani musulmani...
«Sto dicendo che in Medio Oriente vi sono due storie. Una negativa e a tutti ben nota sulla presenza di gruppi estremisti. E una positiva, della quale si parla poco ed a cui ho dedicato il libro perché fra noi e loro vi sono più somiglianze che differenze. I giovani comuni sono più numerosi degli estremisti».
Come è stata la sua esperienza personale di giovane ebreo americano in viaggio nei campi palestinesi in Libano, a pranzo nei fast food con gli Hezbollah, a spasso per le vie di Teheran e Damasco?
«I servizi segreti dei Paesi dove sono stato mi hanno inseguito, infastidito, ostacolato. Ma i sospetti nei miei confronti venivano sempre da chi aveva più di 30 anni. Con gli altri è stato diverso. Sono andato a trovare i giovani presentandomi da giovane, non da ebreo o da americano. In un campo palestinese nel Sud del Libano appena arrivato fui circondato da un gruppo di ragazzi Hezbollah. Gli chiesi cosa avrebbero fatto se un ebreo americano fosse arrivato fin lì e mi dissero che lo avrebbero decapitato. Poi ci siamo messi a parlare di sport e ragazze, di cosa facevano durante la giornata e di come volevano crescere e abbiamo trovato una lingua comune. Alla fine gli ho detto che ero ebreo, e non è avvenuto nulla. In questi posti molti non hanno mai visto un americano, un ebreo, per tale ragione si radicano gli stereotipi».
Ha temuto di essere ucciso come avvenne a Daniel Pearl?
«Quando ho fatto il viaggio avevo appena finito il liceo, ammetto che ero un po’ irresponsabile. Sono fortunato che non sia avvenuto nulla. Ho preso rischi, ma sempre calcolati. Certo, ci sono stati momenti nei quali ho avuto paura. La tragedia di Pearl è ben impressa nella mia mente».
Quale suggerimento si sente di dare al prossimo presidente degli Stati Uniti, quali sono i messaggi da inviare a questi giovani del Medio Oriente così simili agli occidentali?
«La strada per comunicare è la tecnologia perché noi e loro, pur avendo la stessa piattaforma, non interagiamo. C’è una grande opportunità a portata di mano che non viene sfruttata. Il punto da cui partire è che un giovane in Ohio o a Teheran è sempre un giovane. Ogni singolo giovane americano, o europeo, è potenzialmente un vettore di contatto con i suoi coetanei in Medio Oriente. Non bisogna essere per forza un diplomatico o un viaggiatore in questi Paesi per interagire con loro. Liceali, gruppi giovanili, organizzazioni di volontari, gruppi sportivi sono lì ad aspettare di comunicare con noi. Facciamolo».

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