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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
11.09.2008 Far vedere l'orrore per non dimenticare
Bernard Henry-Levy difende la pubblicazione delle foto dei soldati francesi uccisi dai talebani

Testata: Corriere della Sera
Data: 11 settembre 2008
Pagina: 1
Autore: Bernard Henry-Levy
Titolo: «Foto choc da Kabul perché difendo chi mostra l'orrore»
Dal CORRIERE della SERA dell'11 settembre 2008:

Non si tratta di sapere se ci piace o meno Paris Match. Se preferiamo lo choc delle parole, il peso delle foto, o il contrario, secondo lo slogan della rivista.
Se le foto sono state vendute a un prezzo più alto o più basso di quelle di lady Diana insanguinata.
Si tratta solo del fatto che una fotografa, di nome Véronique de Viguerie, è andata in una delle zone più pericolose del pianeta per portarci un reportage raro e, soprattutto, pieno di informazioni.
Infatti, cosa racconta, questo reportage? Prima di tutto, lo stato d'animo dei talebani: odiano noi francesi appena un po' meno degli americani, e i furbi che si illudono di entrare nelle loro grazie se ci facciamo piccoli piccoli, discreti, eventualmente un po' collaborazionisti, si sbagliano di grosso.
Questo reportage racconta che i talebani non sono né «resistenti», né «studenti di religione» e nient'altro del genere, ma mascalzoni, puri mascalzoni, animati da un cinismo a prova di bomba, che ripetono, per festeggiare una vittoria militare, i gesti arcaici della parata e del trofeo.
Questo reportage ci insegna, cosa non certo di poca importanza, come essi siano anche quel che, in gergo moderno, chiamiamo buoni «comunicatori », capaci di mettersi in scena da soli e in posa davanti all'obiettivo (poiché è proprio così, stando a quanto dice la fotografa, che si sono svolti i fatti. E per il momento non c'è motivo di dubitarne).
Infine, ci insegna, o piuttosto ricorda a coloro che non volevano ascoltarlo né comunque dirlo, a coloro che ritenevano, per anni e anni, fosse un segreto di Stato, che abbiamo dei commando di élite che combattono, sulle montagne afghane, accanto alle forze speciali americane; ricorda quindi a questa gente — ed è di capitale importanza — che la Francia è impegnata in una vera guerra, una guerra che non si fa chiamare per nome, esattamente come, cinquant'anni fa, la guerra d'Algeria.
Ebbene, una volta pubblicato questo reportage, che succede? Da una parte, ecco l'accademico Max Gallo che, suonando la carica, accusa la giovane giornalista (la quale, ricordiamolo, nelle sue foto non ha mostrato un solo cadavere!) di strappare — niente di meno — «il sudario dei nostri soldati morti». Da un'altra, ecco l'inevitabile Philippe de Villiers che urla, facendogli eco, all'Alto Tradimento. E perché non evocare l'Alta Corte, visto che ci siamo? La prigione? Il ripristino della pena di morte? Poi ancora il portavoce del ministero della Difesa che, invece di chiedersi se quei soldati fossero sufficientemente armati, equipaggiati e spalleggiati, rimpiange che la stampa non gli dia una mano a «gestire il dolore delle famiglie».
Fino al Primo ministro che va di persona al convegno estivo del proprio Partito a scagliare l'ultima pietra contro quella benedetta giornalista che è venuta meno al dovere di «rispetto» del «dolore delle famiglie» (sic).
Di fronte a una simile valanga di ingiurie, di fronte a questo balletto di tartufi che non vedevamo, appunto, dai tempi della guerra d'Algeria, di fronte allo spettacolo strano e folle di tanta gente ragionevole che si accanisce contro una donna, il cui unico crimine è stato di andare fino in fondo all'orrore e di mostrarlo, ci sentiamo arrossire nel dover ricordare alcune regole di buon senso.
I fotogiornalisti non sono fatti per gestire il dolore delle famiglie, ma per informare. Sono giornalisti, non assistenti sociali, e nemmeno mi-litari, o ausiliari dei militari, che entrano in una strategia, partecipano a uno sforzo di guerra, sono arruolati. Il loro dovere, il loro unico dovere è di mostrare, mostrare sempre, mostrare tutto quel che è possibile far vedere e strappare al regno immenso e senza limiti di ciò che non è mostrabile ed è nascosto. Con il rischio di turbare. Di risvegliare. Di dire a un'opinione pubblica che — è normale— non vuole vedere: invece bisogna vedere.
Con il rischio di mettere in imbarazzo? Sì, di mettere in imbarazzo. Con il rischio d'infrangere il muro del silenzio e di obbligare la Grande Muette, l'Armée, a dire, per esempio, alle famiglie quello che evidentemente non voleva dire: cioè che uno dei dieci soldati, almeno uno, è stato assassinato all'arma bianca. Con il rischio, infine, di dare la parola al nemico? Sì. Ancora sì. Infatti il nemico esiste. Ha un corpo. Un'ideologia. Un discorso. Ed è essenziale esserne consapevoli, soprattutto quando si pretende di vincerlo.
Queste persone dovrebbero leggere quello che il mio amico Salman Rushdie chiamava lo «stregone del reportage contemporaneo», Ryszard Kapuscinski, il quale, a proposito di Erodoto, il «padre del reportage», diceva che se i mass media fossero esistiti ai tempi dei greci sarebbe stato lapidato e gettato sul rogo. Dovrebbero meditare sull'ammirevole Il pittore di battaglie di Arturo Perez- Reverte (Tropea editore), il grande romanzo sul fotogiornalismo che racconta come il «modello» del fotografo di guerra, ritenuto ormai morto nell'ex Yugoslavia, torni per ucciderlo. Infatti, è sempre così, in fondo. Quei mascalzoni di giornalisti, manichini del moralismo. Quegli irresponsabili. Quei diavoli. E, di fronte, coloro che impartiscono lezioni senza aver mai lasciato i propri uffici o la tastiera da blogger. Che vergogna!
traduzione Daniela Maggioni

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