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La Repubblica - Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
10.09.2008 Alla vigilia dell'anniversario dell'11 settembre
testimonianze e riflessioni sul terrorismo

Testata:La Repubblica - Il Sole 24 Ore
Autore: Mario Calabresi - Donatella Stasio - Claudio Gatti
Titolo: «Onu, dall´11 settembre a Beslan le parole delle vittime del terrore - Nessun cedimento sui diritti umani - Quei processi non partono»

La REPUBBLICA del 10 settembre (vigilia dell'anniversario dell'attentato alle Torri gemelle e al Pentagono) pubblica un articolo di Mario Calabresi sulle testimonianza rese all'Onu dalle vittime del terrorismo. Lo stesso Calabresi
Non è vero però, che l'Onu non riesca ad accordarsi su una definizione di terrorismo per
  "le divisioni tra Israele e i Paesi arabi", come scrive Calabresi.
E' piuttosto la volontà araba  di negare che l'uccisione  deliberata di civili israeliani sia terrorismo a  far si che l' "impresa" appaia "impossibile".
La morte di civili in azioni antiterroristiche, causata da Israele in modo non deliberato ( e spesso dovuta al fatto che i terroristi si fanno scudo dei civili palestinesi) al contrario  non è terrorismo, come ha invecesostenuto l'ambasciatore palestinese all'Onu. Peccato che le sue parole siano riferite senza un commento.

Ecco il testo.

Una donna africana con un vestito rosso e un braccialetto di gomma azzurra parla lentamente e piange: «Osama Bin Laden ha usato la mia vita e ha il sangue dei miei colleghi per presentarsi al mondo, per farsi conoscere». Si chiama Naomi Kerongo, viene da Nairobi, dieci anni fa mentre andava a lavorare venne investita dall´esplosione dell´ambasciata americana in Kenya. Morirono 200 persone, lei si salvò ma quando uscì dall´ospedale, dopo due anni, aveva perso il lavoro, la casa e i suoi cinque figli vivevano in una baracca.
Anche Ingrid Betancourt, la donna che ha passato 2321 giorni nella foresta colombiana ostaggio delle Farc, e che le è seduta di fronte, ha il braccialetto azzurro. Sopra c´è scritto "Remember" e "Hope" e ci sono due numeri: 9/11. «Ricorda e spera»: è il motto che ha scelto Alex Salamone che aveva sei anni quando il padre John fu ucciso alle Torri Gemelle nel 2001 e decise che voleva inciderlo su un pezzo di gomma azzurra che tutti quelli che gli volevano bene avrebbero indossato. Da allora decine di migliaia di americani ce l´hanno, da ieri lo hanno messo al polso anche il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, la maestra della scuola di Beslan che vide i suoi scolari massacrati, lo sposo che perse 27 amici e parenti nell´esplosione dell´hotel in cui stava festeggiando il suo matrimonio, un attore australiano che vagò per giorni sulla spiaggia di Bali per cercare i resti di sua madre e della sorellina di 13 anni, e altre 23 persone arrivate da tutto il mondo.
L´Onu da anni discute per trovare una definizione di terrorismo, un´impresa che appare impossibile per le divisioni tra Israele e i Paesi arabi, ma all´unanimità i 192 governi che siedono nel Palazzo di Vetro hanno trovato il modo di fare un passo in avanti: riconoscere le vittime Così a metà dell´estate ho ricevuto insieme ad una cinquantina di persone una lettera di Ban Ki-moon che invitava a partecipare al primo "Simposio di supporto alle vittime del terrorismo". Un meeting supportato da Italia, Spagna e Gran Bretagna. A me hanno chiesto di raccontare come un figlio che ha perso il padre (il commissario Luigi Calabresi ucciso il 17 maggio del 1972) può ritrovare la forza di vivere e di coltivare la memoria.
E´ nato un esperimento per provare a sensibilizzare i governi, a costruire una rete globale e ad indicare dei diritti e delle necessità (mediche, psicologiche, economiche) che hanno valore universale. «Per molti anni ci siamo occupati più della voce dei terroristi che di quella delle vittime», esordisce il segretario generale dell´Onu, che chiede uno sforzo per riconoscere i bisogni delle vittime e per combattere la «spersonalizzazione che cancella la memoria di chi è stato ucciso».
Uno sforzo che secondo Ingrid Betancourt, arrivata a New York insieme alla figlia, deve partire dai mezzi di comunicazione: «Non lasciamo che le vittime diventino solo un´altra statistica, è cruciale che i media raccontino la distruzione del terrorismo sulle vite umane, che raccontino quell´istante in cui si perde tutto, si entra in un´altra dimensione».
Per ore si intrecciano storie solo apparentemente lontanissime tra loro. Un ragazzo indiano, che viene da un piccolo villaggio agricolo, parla del padre ucciso nel 1995 da un gruppo estremista mentre aiutava i contadini predicando la non violenza. E della mamma «in agonia mentale da 13 anni». Il suo racconto, anche se non lo può immaginare, è uguale a quello di molti figli delle vittime delle Brigate Rosse quando parlano delle madri rimaste vedove. Ma non c´è mai compiacimento, ma una dignità fortissima, come sottolinea Arnold Roth che il giorno di Ferragosto del 2001 ha perso la figlia Malki, 15 anni, saltata in aria quando un kamikaze entrò nel ristorante di Gerusalemme dove stava mangiando: «Le vittime del terrorismo non sono persone migliori di altre, ma sono state rubate alla società, rubate alle vite che avevano». Parla di chi è morto, ma anche di chi è sopravvissuto, e della necessità di andare avanti senza coltivare il rancore, per questo ha dato vita ad un associazione che porta il nome della figlia e assiste ragazzi disabili di tutte le religioni.
Carie Lemack, la ragazza di Boston che ha regalato a tutti il braccialetto azzurro, ha perso la madre Judy l´11 settembre: «Era uscita quella mattina all´alba per un viaggio di affari a New York, era sul volo American Airlines numero 11, e la sua vita è finita al World Trade Center. Le vittime vanno ricordate per quello che sono state, per la vita che hanno avuto, non come un nome su una lapide».
E´ quello che aspettavo di sentire e che cerco di spiegare: «Il terrorismo, ad ogni latitudine e in ogni tempo, ha bisogno di trasformare le persone che colpisce in dei simboli, spersonalizzandole. Ma le vittime non sono oggetti, palazzi, monumenti, automobili o aeroplani, ma sono persone che stavano andando a lavorare, correvano da un medico, facevano la spesa in un mercato, aspettavano un autobus, portavano i figli a scuola. Sono donne e uomini che stavano vivendo la loro vita e non erano in guerra con nessuno. Per aiutare le società a capire quanto sia mostruoso togliere la vita ad un essere umano in nome di un´idea, di qualunque tipo, bisogna restituire alle vittime la loro identità. Devono tornare ad essere persone».
Laura Dolci aveva un bambino di tre settimane quando il marito Jean Kanaan morì nell´esplosione del quartier generale dell´Onu a Bagdad nell´agosto del 2003. Parla del suo isolamento, ma scopre che non è sola e cerca speranza per crescere il figlio.
Passano le storie e si vedono anni di titoli di giornale, immagini sepolte nella memoria che ci hanno riempito di angoscia ma poi sono scivolate via: le bombe a Londra sugli autobus e nella metropolitana, le stragi in Algeria, la scuola di Beslan, il sangue sulla spiaggia di Bali, le vittime dell´Ira e dell´Eta in Irlanda del Nord e Spagna, il nostro terrorismo e perfino il gas Sarin nella metropolitana di Tokio. Un professore giapponese che partecipa ai lavori, Nozomu Asukai, specialista negli studi sulle malattie psicologiche da stress post traumatici sostiene che le vittime del terrorismo hanno traumi simili a chi resta sotto un terremoto.
Aleta Gasinova, insegnante, che nel settembre del 2004 entrò nella scuola di Beslan per stare con le sue due figlie Amina e Saneta (che avevano 7 e 9 anni) non riesce ancora a trattenere i singhiozzi: «Era impossibile aiutare gli scolari e non c´è nulla di peggio che non poter aiutare i bambini». Ne morirono 396.
Torna in mente il bagliore dell´hotel Radisson di Amman: era il novembre del 2005 e tutto il mondo vide una festa di matrimonio squarciata dall´esplosione di un kamikaze. Ashraf era lo sposo: «Non sono una vittima, sono un sopravvissuto. In quello che doveva essere un giorno di felicità ho perso mio padre, i genitori di mia moglie e i miei migliori amici». Scuote la testa in continuazione e sullo schermo passano le foto della sposa con l´abito bianco e poi in un letto d´ospedale con la testa bendata.
I delegati di tutti i Paesi ascoltano in silenzio, Ban Ki-moon ha spiegato di «aver fatto di tutto perché la politica non inquinasse l´evento». Non ci sono contestazioni, ma l´ambasciatore palestinese ci tiene a prendere la parola: «Sentiamo la vostra pena e siamo con voi, ma anche con le migliaia che non sono qui, anche con le vittime palestinesi. Perché uccidere ogni civile innocente è terrorismo». E racconta la sua spoon river, fatta di bambini palestinesi uccisi o rimasti orfani per i missili israeliani.
Vicino al nome di ogni partecipante una data e un´ora, quella in cui «la vita è cambiata per sempre»: «Niente ci può riportare al giorno prima dell´esplosione - conclude Naomi Kerongo - non ci possono restituire le vite, le persone o quello che eravamo, ma si può provare a ricordare, a ricostruire e a sperare».

Anche il SOLE 24 ORE dedica alcuni articoli al tema del terrorismo: un'intervista di Donatella Stasio al giudice della Corte suprema americana Ruth Bader Ginsburg, che sostiene la necessità di preservare le difese costituzionali delle libertà anche quando è mnacciata la sicurezza e un articolo di Caludio Gallo sulle difficoltà legali dei processi per l'11 settembre, per i dubbi sulla legalità e la costituzionalità dei procedimenti sollevati dall'Aclu, organizzazione per la difesa dei diritti civili.

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