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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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G. Scholem – L. Strauss Lettere dall’esilio. Carteggio (1933-1973) 08/09/2008

Lettere dall’esilio. Carteggio (1933-1973)                        G. Scholem – L. Strauss

 

a cura di Carlo Altini

 

traduzione di Silvia Battelli

 

Giuntina                                                        Euro 14

 

 

 

 

 

A sedici anni Leo sapeva cosa avrebbe fatto da grande: “Avevo deciso di trascorrere la mia vita leggendo Platone e allevando conigli, mentre mi sarei guadagnato da vivere facendo il postino”. Ma di lì a poco venne la guerra, e il giovane fu spedito sul fronte belga. Fu così che Leo Strauss non divenne mai un filosofo di campagna, perché, dopo la smobilitazione, si tuffò nella vita intellettuale di Berlino. Lui, rampollo della piccola borghesia di provincia, venne risucchiato dal vortice della capitale, in quegli anni frenetico crocevia tra est e ovest.

 

Per un provinciale che arrivava, un berlinese di nascita si preparava ad andarsene. Nel 1923 Gershom Scholem aveva già fatto le valigie per la Palestina, dopo aver voltato le spalle alla propria famiglia e ai sogni d’inserimento nella società tedesca. Il gran rifiuto di Scholem si rivelò ben presto una scelta preveggente, tanto è vero che, poco prima che i nazisti prendessero il potere, anche Strass si decise ad abbandonare la Germania.

 

La lunga corrispondenza tra questi grandi del Novecento ebraico cominciò proprio negli anni Trenta e si protrasse fino al 1973, anno della morte di Strauss. Ma anche quando più violenta infuriava la persecuzione ebraica i due non si scrissero mai di politica. Nelle loro lettere, il nome di Hitler non ricorre nemmeno una volta, come se la storia, coi suoi eventi minacciosi non fosse, per entrambi, che lo sfondo inevitabile di una più necessaria ricerca interiore.

 

Nelle prime lettere, Strauss, che stenta a sbarcare il lunario tra Parigi e Londra, chiede aiuto all’amico, già avviato a una solida carriera accademica a Gerusalemme. Si parla di una possibile cattedra di filosofia all’università ebraica, ma poi il progetto sfuma e Strauss prende la strada degli Stati Uniti. Sarà la sua fortuna, poiché, approdato all’università di Chicago, diventerà un insegnante di successo e un influente storico del pensiero europeo.

 

E’ difficile immaginare due profili intellettuali più diversi. Eppure il dialogo tra Strauss e Scholem circoscrive un’area importante dell’esilio ebraico. Esilio dalla Germania, innanzitutto, ma anche, come ricorda Carlo Altini, il curatore dell’edizione italiana del carteggio – esilio da Atene e da Gerusalemme, in quanto luoghi simbolici della vecchia cultura classica e della tradizione ebraica.

 

Entrambi laici, ed entrambi ai ferri corti col giudaismo tradizionale, sia Strauss sia Scholem danno voce a una radicale crisi del moderno: “Noi concordiamo – scrive Strauss in una lettera del 1960 – sul fatto che il razionalismo moderno o illuminismo…è giunto al termine”. Questa morte della ragione viene espressa per altro in termini ancora lucidamente analitici, come se l’eredità della scuola tedesca fosse talmente radicata da imporsi anche oltre il naufragio. A dividerli è soprattutto il campo d’indagine, perché la mistica di cui si nutre Scholem sembra a Strauss una disciplina oscura e in fondo inaccessibile.

 

Con guizzi d’ironia, Strauss punzecchia l’amico e rinfaccia ai cabalisti due peccati capitali, ovvero mancanza di originalità e di chiarezza. In fondo, sostiene Strauss, Scholem si fa tentare dal romanticismo e ammanta il misticismo di un’aura ingiustificata.

 

Dal canto suo Scholem, che era permalosissimo, in questo caso non  se la prende e anzi si rammarica per non essere mai riuscito a imbastire un comune progetto di lavoro: “Io La ritengo una testa eccellente – scrive – qualità di cui qui si difetta davvero”. Un complimento raro, per il vecchio berlinese, e che suggella un’amicizia vissuta di lontano, come si addice a un esilio nell’esilio.

 

 

 

Giulio Busi

 

Il Sole 24 Ore

 


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