venerdi 22 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Panorama Rassegna Stampa
08.09.2008 Israele festeggia i 60 anni
l'analisi di Fiamma Nirenstein e un'intervista a Paolo Mieli

Testata: Panorama
Data: 08 settembre 2008
Pagina: 101
Autore: Fiamma Nirenstein - Mario Sechi
Titolo: «Noi gente qualunque di un paese unico - Abbaglio intellettuale»

Israele festeggia i 60 anni. Riprendiamo da PANORAMA dell'8 maggio 2008 un analisi di Fiamma Nirenstein e un'intervista di Mario Sechi a Paolo Mieli.

Ecco il testo di Fiamma Nirenstein: 


Quando accettò il Nobel per la letteratura nel 1966, Shai Agnon, nato nel 1888 in Galizia ed emigrato a Gerualemme, disse: «In realtà, mi sono sempre sentito un autentico figlio, un nativo di Gerusalemme». Questa è la verità, il senso profondo di Israele a 60 anni: l’aver restituito la sua verità al popolo che, dopo aver fondato il monoteismo da cui nascono democrazia e diritti umani, fu gettato ai quattro angoli del mondo e perseguitato. Avergli restituito la sua lingua, la possibilità di «essere un popolo libero sulla sua terra», come canta Ha Tikva (la speranza), l’inno nazionale su musica di Bedrich Smetana. Quando l’Onu, nel novembre 1947, votava di nuovo la legittimità internazionale già acquisita nel 1922 con la Partizione, la folla danzò per le strade pur sapendo che cinque eserciti arabi erano già pronti all’attacco.

Con la libertà dunque nasceva la necessità di difendersi, e questa combinazione forse è ciò che a noi europei, che identifichiamo la democrazia con la pace, impedisce di capire Israele, così odiato, così mistificato. A volte, se la giornalista spiega quanto sia bella e piena di gioia la vita in quel paese continuamente colpito, non le si crede. Sono antinomiche, per noi, guerra e libertà. Eppure, la vita di Israele è quella di una pace in guerra, di una società gelosa della sua democrazia quanto della sua stessa esistenza.

La gente, nonostante le minacce di sterminio dell’iraniano Mahmoud Ahmadinejad e il tormento quotidiano dei missili di Hamas e degli attacchi terroristi, è di ottimo umore: la sua vitalità è incredibile, la sua economia fiorente. La gente parla della guerra senza retorica: quanto freddo ha preso il ragazzo sul confine del Libano, o che carattere irascibile ha il «mempei», il comandante della «bambina». I soldati passeggiano abbracciati alla ragazza coll’Uzi a ciondoloni, lo appoggiano alla panca alla fermata del bus.

L’eroismo è familiare e non militare: «Ho acchiappato il terrorista per le spalle, ho portato la borsa piena di tritolo all’angolo, ho salvato tutti; mia madre ha sentito la storia alla radio, e quando sono tornato a casa mi ha tirato uno schiaffone» racconta Shai lo studente-cameriere che ha evitato l’attacco al Caffè Cafit di Gerusalemme.

Persino di Roi Klein, saltato volontariamente su una granata durante la guerra del Libano gridando «Shema Israel», la preghiera principe degli ebrei che proclama l’unicità di Dio, si ricorda con poche parole solo quanto amava la moglie e il suo villaggio. L’incredibile catena di eroismo che punteggia di morti e feriti la storia di Israele è celebrata senza magniloquenza, ogni uomo che muore nella memoria dei suoi cari resta in genere un ragazzo «silenzioso, tranquillo, che amava la pace e aiutava tutti», non un samurai esperto nell’arte della guerra.

Dal lungo viaggio in India o in Messico che tutti fanno dopo i tre anni di servizio militare, i ragazzi chiedono al telefono se il Kinneret (il mare di Galilea) ha riguadagnato 1 centimetro o 2, tutta Gerusalemme discute dell’incredibile ponte, un po’ come quello di Brooklyn, all’ingresso della città, o della passione per la danza del ventre.

Inglobati nel discorso pubblico, la lite sui diritti dei beduini nell’esercito o sul matrimonio civile (che non c’è, in una società che dà asilo invece agli omosessuali palestinesi perseguitati) è altrettranto forte della memoria degli uccisi e degli eroi, o del senso di mancanza che nasce da avere tre rapiti nelle mani del nemico: Eldad Regev e Ehud Golwasser dal luglio 2006 in quelle degli Hezbollah, Gilad Shalit in quelle di Hamas dal 2005. Nessuno dimentica il dramma nella gioia, ma nessuno dimentica la gioia nel dolore: per i rapiti, si è tenuto fuori della porta del premier Ehud Olmert una grande cena di celebrazione della Pasqua che festeggia con canti e letture la fuga dall’Egitto verso la libertà.

Non è strano, qui, che Eretz Neederet (Terra meravigliosa), un programma che ride proprio su tutto, dalla Shoah al Gran rabbino, da Olmert ai terroristi, lasci posto alla tv a una trasmissione in cui si ricorda il tredicenne Kobi Mandel, ucciso a colpi di pietra nel maggio 2001, come Ernest ed Eva Weiss, sopravvissuti ad Auschwitz e uccisi nella strage di Natanya sei anni fa.

Si accompagnano in piscina i bambini facendoli attraversare tenendosi la mano; si campa sotto la pioggia di missili di Sderot; ci si spreme il cervello su invenzioni cibernetiche che improvvisamente rendono molto ricchi ragazzini di origine russa che cedono la loro creatura a qualche grande azienda americana; l’orchestra sinfonica di Tel Aviv e il museo di Gerusalemme restano fra i primi nel mondo, mentre non solo Khaled Mashal, il capo di Hamas, ma anche Abu Mazen, fanno trasmettere alla tv soavi facce di bambini che promettono di diventare shahid: martiri, terroristi suicidi contro «gli ebrei figli di cani e porci». Ahmadinejad grida il suo odio e costruisce la bomba. La guerra e la pace sono sempre stati i due grandi ciambellani di Israele, sempre al suo fianco, onnipresenti e gelosi l’uno dell’altro.

Israele non è solo l’unica società democratica del Medio Oriente, ma anche una delle più democratiche del mondo. La stampa non conosce limiti né gerarchie, il sistema giudiziario funziona anche quando il nemico usa i suoi civili come scudi umani. E viene punito il soldato che colpisca proditoriamente un civile nel campo avverso. Ma per noi europei la parola guerra è inconcepibile, se non in termini di aggressione: gli occidentali imperialisti, cattivi; e gli aggrediti (i poveri, il Terzo mondo) deresponsabilizzati. Così non sappiamo guardare Israele, persino adesso che l’estremismo islamico col suo odio ha rovesciato i paramentri.

Ma Israele ha posto tutto il suo sforzo nella libertà, nonostante la guerra: le donne possono camminare sole la notte senza paura, le porte restano aperte nella maggior parte dei quartieri, essere ricchi è bello ma non c’è snobismo sociale, la familiarità è persino eccessiva: in un minuto ti chiedono quanto guadagni, se sei sposato e anche cos’è quella cicatrice sul viso.

La solidarietà è enorme, nessuno ti abbandonerà per strada. La mia amica Petra Heldt, pastore luterano che vive in Israele, fu ferita quando il mercato di Mahanei Yehuda saltò in aria nel 2000. Un taxi la caricò a bordo mentre sanguinava abbondantemente, e una donna mai vista prima salì con lei sull’auto e le tenne la testa in grembo finché i dottori di Sharei Tzedek non se ne presero cura. «Nessun altro paese fa questo»: Petra è sicura.

E l'intervista a Mieli:

Paolo Mieli, direttore del Corriere della sera, è un intellettuale che ama la storia. Panorama ripercorre con lui i sessant’anni di vita di Israele in una cavalcata che parte dalla seconda metà del Novecento fino ai giorni nostri. Mieli fa una premessa: «Bisogna chiarire due punti. Primo: io sostengo la necessità che nasca lo stato palestinese, come dice il dettato delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947. Su questo non ho mai avuto dubbi, lo stato palestinese ci deve essere e va fatto ogni sforzo per arrivare a questo obiettivo. Secondo: si può e talvolta si deve criticare il governo di Israele e queste critiche, anche dure, non possono essere tacciate di essere una forma dissimulata di antisemitismo». Sono queste le fondamenta di un franco colloquio sul significato di Israele, il Medio Oriente e la politica estera italiana.

Lo stato di Israele compie 60 anni, ma la sua integrità oggi è minacciata. Israele vivrà ancora?

Israele è uno stato definitivo. Le persone di buona coscienza e buona volontà devono contribuire perché lo sia e nessuno ne metta in discussione l’esistenza.

È ancora valida l’idea originaria di uno stato per gli ebrei?

Di quella che si configurava come Palestina, Israele rappresenta il 10 per cento del territorio, un’area che non è mai esistita come stato. Dal 1948 al ’67 non si parlò mai di palestinesi, ma di guerre arabo-israeliane. I palestinesi nella disputa politica era come se non esistessero.

Dunque la disputa territoriale ha fragili basi storiche?

Storicamente, attribuire quella terra agli ebrei o ai palestinesi ha poco senso. Gli arabi conquistarono quei territori nel 637 e vi regnarono fino al 750. Poi arrivarono persiani, turchi, circassi, bizantini e curdi. Nel 1099 fu la volta dei crociati, poi sconfitti nel 1187 dal Saladino. Nel 1244 la occuparono le tribù alleate di Gengis Khan e poco dopo i mongoli cacciati nel 1516 dai turchi che vi resteranno fino al 1918. Ha capito che razza di caos c’è stato in quella regione? Dal che a me sembra che l’esistenza di Israele sia pienamente legittima.

La guerra del ’67 è una svolta: nasce la questione palestinese e la sinistra italiana rompe con Israele. Perché?

Nel ’67 la sinistra, in senso lato, rompe con Israele. L’Egitto aveva chiuso ogni canale di accesso a Israele, preparava una guerra di aggressione. Le radio arabe trasmettevano una canzone che diceva «sgozza, sgozza, sgozza». Gli israeliani, sotto la guida di Moshe Dayan, attaccarono e in sei giorni spappolarono l’esercito del Cairo. Le immagini dei soldati scalzi che tornavano in Egitto fecero il giro del mondo. E lì ci fu la rottura.

Lacerante.

Arrigo Benedetti, fondatore dell’Espresso, lasciò il settimanale insieme a una serie di collaboratori illustri. Poi rientrarono, ma fu un episodio traumatico. Fausto Coen, direttore di Paese Sera, si dimise per il dissenso con la linea del Pci e dell’Unità.

Quali furono gli effetti sul dibattito culturale?

Da quel momento ci fu una realtà capovolta che segnò la generazione del ’68, iniziò un’opera di gigantesca rimozione: Israele fu visto come un paese imperialista, che aveva occupato quei territori per fondare il suo grande stato, l’avamposto degli Stati Uniti nel Medio Oriente.

I giornali come raccontavano gli atti terroristici dei palestinesi?

Per la prima volta fu tematizzato un popolo e quando passò al terrorismo, e lo fece dopo la repressione ordinata da re Hussein di Giordania, nel settembre nero, non solo ciò passò inosservato, ma fu spiegato come una reazione degli oppressi. Questo ai miei occhi aveva una forte dose di manipolazione.

Quando scatta l’epifania rivelatrice?

Durante la guerra del Kippur che seguii sul campo. Mi colpì molto la democraticità con cui i soldati israeliani trattavano i giornalisti sul fronte. Ci furono due episodi clamorosi. Il primo quando Israele sfondò sulle alture del Golan, arrivando alle porte di Damasco. Il secondo fu ancor più spettacolare: l’allora generale Ariel Sharon fece un’operazione pazzesca, risalì per un corridoio sul Canale di Suez, lo varcò e penetrò in Egitto fino alle porte del Cairo, stringendo in un’enclave l’esercito egiziano nel Sinai. Ebbi la sensazione chiara di assistere di persona al farsi della storia.

Vacilla lo stereotipo di un esercito senza scrupoli e di uno stato repressivo.

Ammiravo il modo moderno con cui i militari israeliani gestivano il rapporto con l’informazione e Israele era una società plurale. Fu un’avventura sconvolgente che mi segnò la vita. Allora cominciai ad accorgermi della presenza in Italia di intellettuali e politici che su Israele tenevano il punto.

Chi erano questi politici e intellettuali?

Uno era il comunista Umberto Terracini, un altro Giovanni Spadolini, ex direttore del Corriere della sera. E più di ogni altro, per l’influenza che aveva sulla mia generazione, Marco Pannella. Un’altra personalità che va ricordata è un libraio torinese, Angelo Pezzana, alcuni intellettuali ebrei, come Bruno Zevi, collaboratore dell’Espresso, e altri che passarono da un’attività di sinistra a una consapevolezza sulle ragioni della causa israeliana, come Fiamma Nirenstein. Importante il lavoro di Luciano Tas e Lia Levi, della rivista Shalom, di Furio Colombo, di Ernesto Galli della Loggia, che allora dirigeva la rivista Pagina. Si cominciarono a leggere cose dove c’erano anche le ragioni degli israeliani e anche i torti dei palestinesi.

Nel 1982 Israele finisce nel buio: è l’anno della strage di Sabra e Chatila.

Nel 1982 ci furono l’invasione del Libano, l’operazione Pace in Galilea e la strage di Sabra e Chatila che provocò una reazione enorme. Ma in Italia accaddero due fatti che modificarono la coscienza.

Quali fatti?

Il primo fu la manifestazione dei sindacati in cui apparve del tutto normale (ai sindacati!) depositare una bara davanti alla sinagoga di Roma. Si confondevano israeliani e israeliti. L’episodio della bara turbò. Era stridente. Il secondo accadde quando l’Olp attaccò il tempio con una bomba che fece 30 feriti e uccise un bambino, Stefano Gaj Tachè. La prima persona che reagì fu la responsabile delle pagine culturali della Repubblica, Rosellina Balbi.

Voci dissonanti e coraggiose tra gli intellettuali. E nella politica?

Uno dei primi a capire fu Piero Fassino, all’epoca segretario della sezione esteri del Pci. Nel 1991, quando durante la guerra in Iraq piovvero i missili scud sugli israeliani, Fassino condannò decisamente quell’attacco.

Ma l’intifada trovò molti sostenitori.

La prima intifada voleva essere un acceleratore della pace, ma Yasser Arafat era un capo militare incapace di gestire il «nation building». Quando arrivava il momento della pace, alzava la posta. La seconda intifada fu una reazione mostruosa che rimetteva all’ordine del giorno la distruzione dello stato di Israele e conteneva il virus dell’11 settembre.

Altro cortocircuito: muore Arafat, Al Fatah perde le elezioni, il potere passa a Hamas. Perché?

Arafat era un uomo corrotto e con lui il suo stato maggiore. Al Fatah è stato sconfitto perché Hamas, il nuovo estremismo palestinese, si è mostrato meno corrotto. Questo nel confronto interno ha pesato in maniera decisiva.

Vittorio Dan Segre sostiene che la guerra con Hezbollah ha mostrato l’incapacità di Israele a comprendere la nuova guerra terroristica. Fine del mito dell’invincibilità?

Dan Segre è uno degli scrittori più illuminati sul Medio Oriente. Non esistono stati invincibili, perché le guerre fanno passi avanti. La fine dell’illusione di un Israele invincibile per la sua sopravvivenza è un bene. Bisogna essere consapevoli e attenti: Israele non è un paese che combatte contro una banda di straccioni. Israele può perdere le guerre.

Per inviare una e-mail alla redazione di Panorama cliccare sul link sottostante


panorama@mondadori.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT