Da L'OPINIONE del 3 settembre 2008, riprendiamo una lettera aperta a Gheddafi sugli ebrei di Libia, di Herbert Pagani:
Ci sono paesi disamati dalla storia. Incapaci di offrire ai loro popoli, contro un misero presente, la consolazione di un glorioso passato. Incapaci perfino di trarre profitto dalle loro disgrazie, di trasformare gli oltraggi subiti in leggende esportabili. Paesi che, privi di un fiume per benedire le loro terre, di un eroe per difenderle, di un poeta per cantarle, sono affetti da anonimato cronico. Il paese in cui son nato è fra questi. Prima che il suo nome fosse propulso nel cielo dei media, dai capricci congiunti del petrolio e di un tiranno, quest’immenso territorio non è stato, per 2.000 anni, che una fabbrica di dune. Uno zero, un’amnesia, un sacco di sabbia sventrato e disperso su 1.759.000 chilometri quadrati di mancanza d’ispirazione del Creatore, una sala d’aspetto immemorabile dove non ha mai degnato fermarsi il treno di un’epopea, un vuoto, soffocante e torrido che separava, come una punizione, l’Egitto della Tunisia. Oggi ancora, benché l’afflusso di petrodollari gli abbia permesso di passare dall’oscurità all’oscurantismo, questo paese resta, agli occhi del mondo, l’anticamera delle Piramidi, il retrobottega dei gelsomini. Culturalmente parlando: il parente povero dell’Islam. Il Colonnello lo sa. Anzi ne è così conscio che dopo aver importato i migliori architetti d’Occidente per tracciare audaci prospettive (...) ha tentato di appropriarsi della storia dei suoi vicini, con proposte di matrimonio di un’insistenza patetica, generalmente rifiutate, o seguite da immediati divorzi.
Arrenditi all’evidenza, Colonnello (...) Malgrado i tuoi sforzi, questo paese resta senza viso, come i tuoi sicari, e senza voce, come in passato. (...) Tutte le popolazioni che vi hanno vissuto, nei secoli, hanno subito lo stesso destino di “cancellazione”. Cominciando dalle minoranze etniche o religiose, berbere, cristiane ed ebraiche, che chiamaste “dhimmi”, cioè cittadini “protetti”. Delicato eufemismo per dire ostaggi in attesa di conversione. Essere l’oppresso di un potente offre a volte vantaggi culturali: catene d’oro, tempo per piangere. Essere l’oppresso di un oppresso, nessuno. Ebrei di un paese senza luce, fummo gli ebrei più spenti del Mediterraneo. Privi di quel prestigio di riflesso di cui godono, di solito, i domestici dei grandi Principi, e di cui godettero, almeno una volta durante il loro esilio, tutte le altre comunità. La nostra storia fu così negata, sepolta, per tanti secoli, che senza il libro dello storico Renzo De Felice, “Ebrei in un paese arabo” (...) di questa non resterebbe più, oggi, traccia, né, domani, ricordo. Infatti, dopo aver assaggiato come tutte le consorelle un menù di umiliazioni di una varietà squisita: massacro alla romana, alla mussulmana, alla spagnola, segregazione alla maltese, all’ottomana, leggi raziali nazi-fasciste, e per finire, pogrom post-bellici, compiuti dai nostri fratelli arabi sotto l’occhio dei nostri tanto attesi liberatori britannici, la mia comunità fu pregata di lasciare il paese l’indomani della Guerra dei sei giorni, meno i suoi morti, trattenuti per portare il loro contributo alla Rivoluzione, mediante ossa e lapidi le quali, debitamente frantumate dai bulldozer, sono servite da base a un’importantissima autostrada costruita d’urgenza per collegare il nulla al nulla, e a due giganteschi alberghi per un turismo tuttora inesistente.
Così, io, Ebreo senza più radici né memoria, ho aperto il libro ed ho scoperto che la nostra presenza in Libia risaliva a più di 2.170 anni; che precedeva quindi non solo l’invasione araba, ma anche quella romana; che, bellicosi e fedeli al nostro Dio, contro l’esercito romano ci eravamo sollevati, appena avuta notizia della caduta del tempio di Gerusalemme; che quella sommossa ci era valsa decine di migliaia di vittime, ma anche una lapide in latino che riferisce il fatto, e senza la quale non sapremmo che fummo una così antica e coraggiosa comunità. Ma questa è storia, dicevo girando le pagine, storia che fonda la mia legittimità, ma non basta, io voglio di più, io... io non sapevo cosa volessi, ma lo trovai. A pagina 41. Un censimento della popolazione ebraica di Tripoli: (...) 4.500 abitanti. (...) Certo non erano i poeti matematici filosofi e medici che fiorivano i giardini della Spagna mussulmana, e curavano i mal di testa dei califfi illuminati, ma era pur sempre la mia famiglia, o perlomeno il perimetro sociale entro il quale senza dubbio alcuno, si era mossa. Mi misi dunque a trascrivere questa lista a mano, sicuro che uno dei miei sarebbe passato, presto o tardi, sotto la mia penna. (...) Ma di cosa si lamenta? Dirà il Colonnello sotto la sua tenda.
Voleva partire, l’abbiamo lasciato partire. Certo, ci hai perfino incoraggiati a farlo, spogliando i pochi pazzi, ancora attaccati alla loro terra, dei loro beni e dei loro diritti. Ma stai tranquillo, non è per nostalgia che ti scrivo. Non faccio parte di quei poveri infelici che per rivivere la loro infanzia tripolina vanno a passare le vacanze a Tunisi. (...) Se ti scrivo, è per dirti che la nostra comunità è viva, che cresce e prospera, che si è rifatta, hamdullah. Perché avendo perso tutto non aveva altra scelta se non avanzare. Noi siamo come le api, Colonnello, se il padrone del campo ci ruba il miele a settembre, lo rifacciamo in fretta, prima dell’inverno, e se continuiamo a punzecchiarti con le nostre richieste di risarcimenti è meno per interesse che per dignità, per ricordarti il tuo debito ma soprattutto la tua perdita. Siamo produttori di beni, materiali e morali, lo siamo sempre stati e tu lo sai, perché il lavoro non ci fa paura, perché il lavoro per noi non è mai stato punizione, bensì espressione, anzi, benedizione. La prova, dopo un mese nei campi-profughi di Latina e Capua, i nostri hanno abbandonato le baracche e sono partiti in cerca di lavoro, e l’Italia, che dandoci rifugio e cittadinanza ha creduto di farci la carità, si è ben presto accorta di aver fatto un investimento. Tu invece, come tutti i governanti del nuovo mondo arabo, hai voluto lavar via gli ebrei dal tuo tessuto sociale. Ne hai corroso le fibre: commercio, artigianato, agricoltura, professioni liberali, tutto si è dissolto, è volato via come sabbia nel Ghibli e tutta l’esperienza che comprate all’Occidente non potrà sostituire l’esperienza antica che avevamo noi di voi, noi, la cui vocazione è stata, da sempre, la comunicazione fra gli esseri, i gruppi, le etnie, le discipline, i principi, gli stati, le civiltà. Ma Allah, che è grande e vede lontano, ha voluto, per tua mano, farci partire, affinché io andassi a cantare i miei canti sotto altri cieli, e che la tua nazione potesse proseguire, come in passato, il suo esaltante compito: essere la pagina vuota del Grande Libro dell’Islam. New York, 1987
Per inviare una e-mail alla redazione dell'Opinione cliccare sul link sottostante
diaconale@opinione.it
|