Kalooki Nights Howard Jacobson
Cargo Euro 20
Lo chiamano il “Philip Roth inglese” o il “Woody Allen di Manchester”. Paragoni che incuriosiscono ma non rendono giustizia al suo talento, un mix di umorismo British e ironia ebraica venato di inaspettate tenerezze. Classe 1942, ex professore di letteratura, Howard Jacobson è uno scrittore tardivo: ha pubblicato dieci romanzi dopo i quarant’anni. L’ultimo, Kalooki Nights (Cargo, pp. 568, euro 20), che sarà presentato al festival di Mantova il 7 settembre, offre l’occasione di scoprire quest’autore schivo ma dall’eloquio brillante, molto amato in patria ma ancora sconosciuto in Italia.
Ambientato nella Manchester anni 50, il romanzo narra dell’amicizia tra Max e Manny, cresciuti in due famiglie ebree che più diverse non si può. A casa di Max si passano le notti a discutere di boxe e a giocare a kalooki, una variante del ramino di cui sua madre è la dorata sacerdotessa. Da Manny si santifica il sabato e si vive in ortodossa, silenziosa infelicità. Da grandi si ritroveranno, uniti da un crimine incomprensibile.
Lei ha dichiarato che prima di scrivere il libro era pieno di rabbia verso gli ebrei. Cosa intendeva?
“Ero stufo dell’etichetta di “maggior scrittore ebreo britannico”. Ho studiato a Cambridge, ho insegnato Dickens e Jane Austen; la mia è una famiglia di ebrei illetterati che in sinagoga non sapevano da che parte girarsi. Ho scritto storie ebraiche ma, come la moglie goym di Max, ripetendomi di continuo: “ebrei, ebrei, ebrei. Perché parlate sempre di voi?”. Kalooki Nights nasce da queste contraddizioni. Non volevo cominciarlo, poi ho pensato: al diavolo, non devo giustificarmi. L’ho scritto per rievocare la varietà del mondo ebraico in cui sono cresciuto, la dialettica tra le sue componenti, che amo e che oggi mi sembra rimpiazzata dalla tendenza a esibire i segni del proprio credo. E poi c’è il tema delle ferite degli ebrei del Dopoguerra, il trauma dell’Olocausto che scoprivamo per accenni, quasi di nascosto”.
Nel descrivere le trappole della memoria, la sua ironia è tagliente.
“Ricordare fa parte della nostra identità. Ma dopo Primo Levi non ha senso rievocare la Shoah con quel registro. Per me la memoria è una cosa pericolosa, da maneggiare con cura. Ha detto un sopravvissuto allo sterminio: “se potessi leccare il mio cuore, moriresti avvelenato”. L’ironia fa parte del mio modo di resistere all’intossicazione”.
Kalooki Nights è anche una storia di amori proibiti e di un omicidio senza spiegazione. Perché ha inserito un delitto?
“Per il gusto del rischio. Manny, il ragazzino ortodosso, mette in scena un piccolo olocausto domestico. E’ difficile da digerire. L’amore tra “gentili” ed ebrei, poi, è un altro tabù su cui riflettere. Mio padre aveva una nozione assai vaga dell’essere ebreo, però mi raccomandava di non sposare una gentile. Due volte ho trasgredito, la terza ho obbedito”.
Lara Crinò
Il Venerdì di Repubblica