I miei viaggi nella memoria la letteratura di Jonathan Safran Foer
Testata: Avvenire Data: 02 settembre 2008 Pagina: 23 Autore: Elena Molinari Titolo: «Foer: i miei viaggi nella memoria»
Da AVVENIRE del 2 settembre 2008:
N el suo primo romanzo, scritto a 23 anni, ha sperimentato con la lingua inglese, calandosi nei panni di un adolescente ucraino che l’aveva imparata leggendo il vocabolario. Ha mitizzato la storia della sua famiglia, usandola per esplorare temi come l’Olocausto, l’amore, l’amicizia. E ha ironizzato su se stesso, mettendo in primo piano un giovane americano ebreo che si chiama Jonathan Safran Foer ma che potrebbe essere, o non essere, lo stesso Foer. Un giovane che va alla ricerca del proprio passato, cercando la donna che aveva salvato il nonno dal massacro in Ucraina compiuto dai nazisti, in quello che va tristemente noto con nome di «Olocausto delle pallottole». Poi ha passato un anno a ricevere rifiuti da agenti e case editrici, prima di vedereOgni cosa è illuminata andare in stampa e diventare un immediato best seller (e un film che ha avuto altrettanto successo). Per il suo secondo romanzo Foer, che nel frattempo si era sposato e aspettava un figlio, ha cambiato registro, facendo narrare gli effetti dell’11 settembre a Oskar (un omaggio a Gunter Grass), un bambino di otto anni che ha perso il padre nel crollo delle Torri. Questa volta non ha avuto problemi a pubblicare Molto forte, incredibilmente vicino, né a ricevere un anticipo milionario che gli ha permesso di fare lo scrittore a tempo pieno. Un privilegio per il quale il 30enne Foer, che vive e lavora a Brooklyn, si considera fortunato e che odia allo stesso tempo. Vuole dire che non le piace scrivere? «No. Lo odio. Perché è imprevedibile. Perché possono passare mesi prima che abbia in mano qualcosa di cui mi senta soddisfatto. Non c’è weekend, non c’è la solidarietà dei colleghi». Quando scrive, per chi scrive? «Sono le diversi parti di me che si parlano. La mia identità ebrea o americana potrebbero trovare strano un passaggio, ma alla mia identità di uomo sposato potrebbe piacere ». Le voci narranti dei suoi romanzi guardano al mondo con prospettive insolite. È il suo modo di vedere la vita o è una tecnica letteraria? «E’ una tecnica letteraria. Non aspiro a creare romanzi realistici, e non cerco di inventare personaggi del tutto verosimili. A volte quello che creo risulta realistico, ma può sembrare irrealistico in alcuni aspetti. Questo è stato detto di Oskar, che sarebbe troppo precoce. Ma non mi ha mai preoccupato essere esatto. L’arte non ha le costrizioni del giornalismo. Può essere esistenziale e parlare in modo eloquente dell’esistenza senza doverla riprodurre ». «Molto forte, incredibilmente vicino » è stato criticato anche per il modo esplicito con cui descrive le emozioni dell’11 settembre 2001. Pensa che fosse il modo migliore di rappresentare l’atmosfera che dominava New York dopo la strage? «Con i libri non c’è mai un modo migliore. È più una scala orizzontale sulla quale le opere vengono poste. Il mio è un modo di raccontare quella storia. Ma certo non l’unico ». Che cosa mancava dagli altri libri sull’11 settembre? «Non funzionavano, almeno per me. L’arte è così soggettiva. Di certo aveva qualcosa a che vedere con le emozioni. Volevo un modo di parlare di quei fatti che non fosse politico». Pensa ai suoi lettori quando scrive? «No, non me lo posso permettere. Scrivere è già difficile così com’è, senza doversi preoccupare delle reazioni altrui. Scrivo perché posso e scrivo quello che posso. Non che il successo di pubblico non mi interessi. Spero che i miei romanzi tocchino il cuore dei lettori, che vengano letti da molta gente. Ma scrivere un romanzo è come mettere idee ed emozioni in giro per il mondo e sperare che crescano». Quali sono queste idee? «Cambiano continuamente. Il mio secondo romanzo è completamente diverso dal primo. Spero solo che i miei libri tengano il passo con la mia vita. L’unica misura del successo di un libro per me è che mi abbia cambiato, che sia stato necessario. Mi chiedo sempre: è autentico per me?». Le interessa scrivere di fede, di Dio? «Penso di sì. Scrivo già molto di famiglia. Ed è naturale. Questi sono i grandi temi. Non c’è bisogno di essere religiosi per sapere che la religione è un tema dominante nella propria vita. Sembra che Dio tenda a riemergere nella mia scrittura, da solo». C’è una componente visiva, quasi fisica nei suoi libri - caratteri enormi o piccolissimi, intere pagine bianche - è una risposta a chi dice che i libri sono in via d’estinzione? «Forse. E’ un modo di esprimere il rapporto viscerale, quasi feticistico che ho con i miei libri. E’ più che altro un bisogno». In questo momento storico, cosa ha il mondo bisogno di leggere? «Non penso che questo momento sia in alcun modo diverso dagli altri che lo hanno preceduto. I libri buoni non invecchiano. I buoni scrittori non scrivono per un momento ma per una condizione. Il mondo cambia, ma non è saggio per la letteratura cercare di seguirlo». Sta lavorando a un nuovo romanzo? «Sì». Di cosa si tratta? «È un tale garbuglio adesso. Ci sto mettendo molto tempo a sgarbugliarlo. Pensavo di essere veloce ma forse in realtà sono lento. Non posso parlarne ora». Sente la pressione di tenere testa alla fama che ha raggiunto con i suoi primi due romanzi? «La fama letteraria non è vera e propria celebrità. La gente non ti ferma per strada. No, non sento pressione. Mi considero solo fortunato di poter vivere facendo lo scrittore». «Non c’è bisogno di essere religiosi – racconta – per sapere che la religione è un tema dominante nella propria vita. Sembra che Dio tenda a riemergere nella mia scrittura, da solo»
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