Shangai addio Angel Wagenstein
Baldini Castaldi Dalai Euro 18
Erano senza visto e senza passaporto, immigrati illegali insomma, ma di un tipo molto particolare. A spingerli non era il bisogno economico o il desiderio di cercar fortuna lontano da casa. Al contrario, lasciavano comodi appartamenti borghesi o addirittura ville lussuose. Per gli ebrei che si erano ostinati a restare in Germania e in Austria fino alla fine del 1938, il tempo era agli sgoccioli e le vie di fuga quasi tutte chiuse. Forse l’ultimo posto al mondo dove si poteva entrare senza documenti era il porto di Shanghai. La città era rimasta in una specie di limbo da quando nel 1937, l’esercito imperiale giapponese l’aveva occupata. Le vecchie potenze europee si spiavano e si facevano dispetti a vicenda pensando alla guerra ormai imminente, mentre il governo fantoccio cinese non sapeva esattamente cosa doveva governare e i militari giapponesi, dal canto loro, facevano fatica a districarsi in quell’emporio dalle mille anime.
Per una volta almeno, il caos fu provvidenziale per gli ebrei, che a migliaia partirono da Berlino o da Vienna con meta Shanghai. Anche se per loro era niente di più che un nome esotico, dopo la notte dei cristalli la parola d’ordine era fuggire, a qualunque costo. Qualche fortunato riuscì a imbarcarsi a Genova su lussuose navi da crociera giapponesi, che compivano la traversata in uno sfarzo surreale. I più si dovettero però arrabattare con mezzi di fortuna, e arrivarono esausti a Shanghai, dove si sistemarono alla bell’è meglio in un ghetto sovraffollato.
Per una torma di architetti, ingegneri e giornalisti mitteleuropei, che non parlavano una parola di cinese, c’era davvero poco da fare. La comunità ebraica locale organizzò una rete di assistenza. Nel giro di pochi mesi, il ghetto arrivò a contare oltre ventimila abitanti. Intere famiglie vivevano ammonticchiate in una sola stanza, in spaventose condizioni igieniche, ma si pubblicavano giornali in yiddish, e orchestrine in stile viennese cercavano di ricreare l’atmosfera di casa.
Dopo Pearl Harbor la situazione degli ebrei di Shanghai peggiorò ulteriormente. I giapponesi, però, non presero mai la decisione di eliminare quegli scomodi “ospiti”, nonostante le pressioni esercitate dagli alleati tedeschi.
Forse fu per un’estraneità di fondo della cultura giapponese rispetto all’antisemitismo, o forse per inerzia, oppure, più probabilmente, perché il conflitto prese una piega negativa, e quei laceri ebrei di Shanghai erano per il Giappone un problema tutto sommato minore. Fatto sta che il ghetto superò quasi indenne il conflitto e anzi i danni maggiori furono inflitti dai bombardamenti americani del maggio-luglio 1945, dopo che la Germania nazista si era già arresa.
Quando anche l’impero del Sol Levante capitolò, la colonia ebraica si svuotò rapidamente. Poche centinaia tornarono verso l’Europa semidistrutta, mentre i più scelsero gli Stati Uniti. A far calare il sipario sul ghetto di Hongkou fu la presa di potere dei comunisti, che chiusero le sinagoghe e smobilitarono ogni forma di vita comunitaria.
Le peripezie degli ebrei di Shanghai hanno offerto ad Angel Wagenstein lo spunto per una turbolenta epica novecentesca. Nato nel 1922 in Bulgaria, Wagenstein è cineasta e sceneggiatore, e il suo racconto ha il ritmo di un copione ben architettato. Il romanzo (Shanghai addio, pagg. 290, Euro 18,00) in uscita da Baldini Castoldi Dalai, si muove tra l’Europa e la Cina, in un succedersi di colpi di scena, e in un caleidoscopio di vite diverse, che affiorano, scompaiono e riemergono, spesso drammaticamente. Nella Shanghai ebraica di Wagenstein non c’è davvero penuria di pathos, tra spie senza scrupoli, musicisti di successo, giovani rivoluzionari dall’esistenza ambigua, nonché sognatori ammalati di nostalgia, tutti in fuga dall’Europa in guerra.
Ma se per Wagenstein il Vecchio continente è diventato, a causa dei nazisti, un non-luogo, neppure Shanghai riesce e emergere dalla fata morgana di un Oriente indefinibile. I protagonisti si ritrovano più che mai sradicati e in balia del nonsenso. Sola realtà – ed è questa la vera scommessa del romanzo – è lo spessore quasi materico dei sentimenti, che impregnano l’esistenza nel quartiere-ghetto di Hongkou, e che rendono l’esilio, se non accettabile, almeno sopportabile.
In fondo, quella raccontata da Wagenstein è una delle ultime avventure coloniali. E’ però una colonia capovolta, in cui un frammento d’Occidente viene gettato in capo al mondo, e un gruppo di ebrei europei si trova, suo malgrado, a raccogliere i cocci di una civiltà andata in frantumi.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore
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