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Avvenire Rassegna Stampa
31.08.2008 In Cisgiordania mancano le discariche: accuse a Israele
e replica del ministero dell'Ambiente

Testata: Avvenire
Data: 31 agosto 2008
Pagina: 23
Autore: Barbara Uglietti - B.U.
Titolo: «Rifiuti in Cisgiordania, una bomba a orologeria - Permessi a gontagocce per costruire siti. Gerusalemme si difende»

Correttamente, AVVENIRE del 31 agosto 2008 affianca all'intervista a Nader al-Khatib, Di­rettore generale dell’agenzia palestinese “ Water and En­vironmental Development Organisation” e Direttore palestinese della "Friends of Earth Middle East", che accusa Israele per la mancanza di discariche in Cisgiordania, la risposta del governo israeliano

L'impaginazione però non è equilbrata.
 L'articolo sulla posizione israeliana è meno visibile, le posizioni dell'associazione Friends of the Earth Middle East sono riportate nella titolazione con particolare evidenza.
Il titolo stesso dell'articolo su di esse è impresso sulla fotografia di un bambino che cammina tra i rifiuti.


Ecco il testo dell'intervista:

Quando i cancelli del valico di Rafah – al confine tra Egitto e Striscia di Gaza – sono stati aperti, ieri, centinaia di per­sone erano già in fila per passare “dall’altra parte”. Il Cai­ro ha deciso di tenere aperto il passaggio fino a questa notte, in modo da consentire ai palestinesi bloccati di tornare a casa. Il checkpoint era stato sbarrato oltre un anno fa, quando Ha­mas aveva preso il controllo della Striscia. Allora, molti palesti­nesi con passaporto straniero erano rimasti “intrappolati” a Ga­za mentre altri si erano trovati “chiusi” in Egitto. Secondo fonti del Cairo, almeno 500 persone sarebbero tornate in Egitto, men­tre 700 avrebbero fatto il percorso inverso. Hamas ha più volte chiesto alle autorità egiziane la riapertura permanente del vali­co, in modo da minimizzare gli effetti “dell’embargo” israeliano. Il Cairo, però, ha risposto che lo farà solo col consenso di Geru­salemme e il presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen, capo di Al Fatah, la fazione rivale di Hamas

I l rapporto del 2006 era significativamente inti­tolato:
  A Seeping Time Bomb,

  “La bomba a orolo­geria delle infiltrazioni”. Era stato redatto dall’organizza­zione ambientalista israelo­palestinese Friends of the Earth Middle East (Foeme) e spiegava, in breve, che la mancanza di discariche in Cisgiordania stava contami­nando la falda acquifera tanto da mettere a rischio le risorse dell’intera regione.
  Quel documento aveva pro­dotto qualche risultato: la Banca Mondiale, con l’U­nione europea, aveva com­pletato una discarica vicino a Jenin e il governo tedesco aveva avviato un impianto per il trattamento dei rifiuti solidi vicino a Ramallah.
  «Ma siamo ancora molto lontani da una soluzione», spiega Nader al-Khatib, Di­rettore generale dell’agenzia palestinese “ Water and En­vironmental Development Organisation” e Direttore palestinese della Foeme.

 A che punto sono i progetti per i siti in Cisgiordania?

 Il piano di sviluppo palesti­nese prevedeva la costru­zione da 3 a 5 discariche in Palestina. Solo quella nel Nord, a Zaharat Finjan, vici­no a Jenin, è stata comple­tata ed è in uso. Ovviamente non basta.

 In mancanza di queste di­scariche centrali, come fan­no i palestinesi della Ci­sgiordania?
 Ogni municipalità si è ar­rangiata, trovando sul pro­prio territorio dei siti prov­visori. Ma sono discariche poco sicure: non è possibile trattare in alcun modo la spazzatura e quindi produ­cono un sacco di inquina­mento. Dell’aria, perché ci sono materiali tossici che e­vaporano. E della falda ac­quifera, per la decomposi­zione dei rifiuti. Va aggiunto che nelle discariche palesti­nesi ci finisce pure la spaz­zatura degli insediamenti e­braici in Cisgiordania. E ab­biamo notizie di industrie i­sraeliane che scaricano il lo­ro materiale tossico in Pale-
stina: sono state spostate dall’interno di Israele alle colonie proprio per rendere più “agevole” lo scarico dei liquami in assenza di una legislazione severa in que­ste aree.
 Israele però nega tutto que­sto (vedi articolo a fianco).
  E respinge le accuse in base alle quali la mancanza di discariche è dovuta soprat­tutto alle restrizioni impo­ste dalle autorità ebraiche.

 I fatti sono questi: la raccol­ta dei rifiuti è affidata alle singole municipalità, ma i palestinesi hanno bisogno dell’approvazione israeliana per costruire qualsiasi cosa, comprese le discariche. È u­na procedura molto com­plicata e spesso inficiata non da questioni strutturali o logistiche o tecniche, ma politiche.

 Politiche?
 Sì. Israele non approva la costruzione di nuove ed ef­ficienti discariche e l’inqui­namento prodotto da quelle non a norma finisce per in­quinare la falda del Moun­tain Aquifer, che è l’unica sorgente di acqua potabile per i palestinesi. E che tra l’altro sorge per il 90% su territorio palestinese, anche se viene utilizzata all’80% dagli israeliani. Ecco spiega­to perché i palestinesi han­no il problema della man­canza d’acqua pur avendo
l’acqua.
 Ma perché gli israeliani do­vrebbero impedire la solu­zione di un problema che, alla fine, danneggia anche loro stessi?
 Appunto per utilizzare la falda come strumento di pressione politica. Stanno cercando di collegare il pro­blema delle discariche a quello degli insediamenti e­braici
in Cisgiordania. Dico­no: vi facciamo costruire le discariche solo se queste potranno servire anche le colonie. Ma i palestinesi non potranno mai accettare una cosa del genere, perché quegli insediamenti, non lo dico io, lo dice l’Onu, sono del tutto illegali. Quanto al fatto che l’inquinamento danneggia anche gli israe­liani, loro hanno alternative al Mountain Aquifer. Hanno la falda che corre lungo la costa, hanno sistemi di de­salinizzazione dell’acqua, hanno acqua dal lago di Ti­beriade eccetera. I palesti­nesi hanno solo in Moun­tain Aquifer. E controllare la loro acqua è un modo per controllare i palestinesi. Si chiama, semplicemente, occupazione.

E le repliche di Israele:

I l governo israeliano respin­ge le accuse degli esperti palestinesi che lo ritengo­no responsabile della mancata costruzione delle discariche e degli impianti di trattamento dei rifiuti in Cisgiordania. Il mi­nistero dell’Ambiente israelia­no conferma che in Cisgiordania i palesti­nesi hanno la libertà di costruire infrastrut­ture ambientali nelle aree A e B – quelle sot­to l’amministrazione dell’Autorità naziona­le palestinese: il 41% del territorio –, ma che se vogliono edificare in area C – sotto il con­trollo e l’amministrazione di Israele: il 59% del territorio – devono in effetti chiedere il permesso del governo delle autorità dello Stato ebraico.
  «Ma il governo – spiega il portavoce del mi­nistero – non sottovaluta le loro necessità e sta studiando misure adeguate da adottare. Si tratta però di procedure burocratiche molto lunghe, e questo determina la lentezza delle soluzioni intraprese, che non sono dunque il frutto di una precisa volontà politica».
  Quanto al problema dei coloni, che secondo fonti palestinesi scaricherebbero rifiuti nelle discariche dei Territori, il ministero dell’Am­biente
precisa che «quello dei rifiuti è un business, e se tu vuoi mettere la tua spazzatura in u­na discarica devi pagare. È e­sattamente quello che succede per alcune colonie: buttano la spazzatura nei siti palestinesi, ma pagano per questo servizio». Diversa la questione riguardante la falda del Mountain Aquifer, la principale fonte di ac­qua per i palestinesi, che secondo gli esperti delle organizzazioni ambientaliste si stareb­be inquinando gravemente a causa della mancanza di discariche nei Territori dovuta alle restrizioni israeliane.
  Il ministero dell’Ambiente replica che, in ba­se al protocollo sugli Accordi civili contenu­to nell’intesa israelo-palestinese del 1995, «in mancanza di siti adeguati dalla parte palesti­nese, i rifiuti tossici, chimici o radioattivi ven­gono versati solo nei siti autorizzati in Israe­le, dove verranno processati secondo stan­dard ideali». Gli israeliani, in proposito, ag­giungono però che, nonostante una costan­te attenzione, non possono controllare feno­meni di utilizzo abusivo e rischioso delle di­scariche.

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