Quel che l'ebraismo ha da dire al mondo intervista a Giorgio Israel
Testata: Il Foglio Data: 31 agosto 2008 Pagina: 4 Autore: Cristina Uguccioni Titolo: «La Torah è più cuore che numeri»
Da Il FOGLIO del 31 agosto 2008:
Sono due, tratti dal Libro del profeta Isaia, i passi della Bibbia più cari al professor Giorgio Israel, professore ordinario presso il Dipartimento di Matematica dell’Università La Sapienza di Roma, e nostro “fratello maggiore”, come lo chiamerebbe Giovanni Paolo II. Il primo passo recita: “E’ troppo poco che tu sia mio servo per ristabilire le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele. Voglio fare di te la luce delle genti onde tu porti la mia salvezza fino all’estremità della terra (Isaia 49,6)”. Nel secondo passo si legge: “A che mi servono tanti vostri sacrifizi? Dice il Signore. Sono sazio di olocausti di montoni e del grasso dei giovenchi. Il sangue di tori, agnelli e capri non lo gradisco! Quando entrate a vedere il mio volto, chi vi ha chiesto mai questo: calpestare i miei atri? Cessate dal presentare vuote offerte, l’incenso è per me un’abominazione! Novilunio, sabato, sacra adunanza, non le sopporto più, né digiuno o solennità. L’anima mia odia i vostri noviluni e le vostre feste; esse sono per me un peso, sono stanco di sopportarle. Quando tendete le vostre mani, io chiudo i miei occhi davanti a voi. Anche se proseguite a pregare, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi. Rimuovete dal mio cospetto le sozzure delle vostre azioni. Cessate di operare il male. Imparate a fare il bene. Ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la vedova (Isaia 1,11-17)”. Il professor Israel spiega così la sua scelta: “Questi due brani sono a mio giudizio strettamente collegati fra loro. Cominciamo ad esaminare il primo: qui si mette in evidenza l’elezione del popolo ebraico e la finalità di questa elezione, cioè l’essere luce per gli altri popoli e portare loro la salvezza. Dio, che ha conferito agli ebrei un ruolo particolare, ha con loro un rapporto privilegiato: li avverte perciò che la loro missione non può ridursi a ‘ristabilire le tribù di Giacobbe e a radunare i superstiti’, cioè non si può limitare a ricostruire e preservare l’identità del popolo ebraico: occorre invece che esso diventi luce delle genti, che porti la Rivelazione divina a tutti. E’ impensabile che il popolo ebraico possa tenere solo per sé la Rivelazione ricevuta come fosse un dono privato ed esclusivo. L’elezione non è un privilegio fine a se stesso, ma è in funzione di un dovere verso l’umanità intera. Questo, il dovere della missione, è uno dei molti temi che ci accomuna ai cristiani. Nel secondo passo che ho scelto si afferma con parole molto dure che i precetti – che gli ebrei sono tenuti a osservare in quanto popolo eletto – sono addirittura sgraditi a Dio se non sono accompagnati dalla scelta di operare concretamente il bene e rifiutare il male. Colgo un legame importante e di grande attualità fra i due brani poiché essi evidenziano una dialettica da sempre presente nell’ebraismo, che è tipica del polimorfismo della nostra complessa religione: da un lato la spinta profetica ad annunciare la salvezza a tutte le genti, dunque una sorta di movimento di uscita da sé per andare agli altri, e dall’altro invece, la chiusura in sé, la scrupolosa adesione ai 630 precetti, la quale però comporta un grave rischio: quello di assumere atteggiamenti puramente formali ed esteriori che non perseguono il bene e dimenticano il senso della missione del popolo ebraico. Questi due aspetti sono costanti nella storia ebraica: talvolta nel corso dei secoli, anche a seguito di vicende storiche drammatiche e tragiche come le persecuzioni, ha prevalso la tendenza a ‘chiudersi dentro la siepe della Torah’, come si usa dire, rinunciando alla missione universalistica. In questo senso l’essere ebrei coinciderebbe con il rispetto minuzioso della precettistica e l’ebraismo si risolverebbe esclusivamente in questa ortoprassi. Nel messaggio profetico del secondo brano Dio dice però di non gradire olocausti e vuote offerte, afferma addirittura di non sopportare più il sabato, così importante per tutti gli ebrei! E tutto ciò perché si seguono i precetti e non i principi morali, perché si compie il male e non il bene. Questo brano esemplifica chiaramente il rischio – sempre presente – di una contrapposizione tra morale e ortoprassi, tra la scelta del bene che deve essere all’origine dei gesti e il vuoto formalismo. La tradizione del profetismo è assai influente nella letteratura ebraica, particolarmente in quella kabbalistica: il celebre kabbalista Mosè Cordovero arriva al punto di osservare che la Torah dei precetti contiene divieti da lui definiti ‘angosciosi e miserabili’ che sarebbero incomprensibili se non si approfondisse il senso del testo stesso della Torah. Anche nel Talmud, che è più legato alla tradizione precettistica della Halakha, si trovano riflessioni molto interessanti: ad esempio ci si interroga sulle ragioni che portarono alla distruzione del Secondo Tempio proprio mentre ‘la popolazione dell’epoca viveva una vita irreprensibile sul piano dei precetti e studiava intensamente la Torah’. Nel Talmud si legge che ‘Gerusalemme fu distrutta unicamente perché vi si seguiva scrupolosamente la Legge della Torah’. E’ un’affermazione forte, imbarazzante, complessa: il rabbino Adin Steinsaltz, massimo esperto mondiale del Talmud, la interpreta affermando che il popolo fu punito perché non giudicava altro che in conformità alle Leggi della Torah e non praticava l’indulgenza: pur nel rispetto delle leggi che ogni ebreo è tenuto a osservare, vi sono ragioni che consentono di attenuare il rigore in nome della misericordia. Quindi, sostiene Steinstalz, ‘se coloro che hanno il potere di pronunciare giudizi, non agiscono con misura il loro comportamento annunzia l’avvicinarsi della distruzione’. Queste considerazioni sono a mio giudizio di grande attualità poiché anche oggi, nell’ebraismo, sono ti correnti che privilegiano e antepongono all’annuncio del messaggio rivelato da Dio la complessa e minuziosa determinazione delle regole da seguire nella vita quotidiana, con il rischio di esasperazioni molto negative”. Nel Vangelo secondo Matteo, Gesù per due volte (Mt 9,9-13 e Mt 12,1-8) rimprovera i farisei dicendo: “Misericordia io voglio e non sacrificio”. Gesù con queste parole ammonisce tutti noi cristiani. “Il brano che ho scelto evidenzia proprio che nell’ebraismo è già presente il monito espresso da Gesù, il rimprovero a quel fariseismo che si chiude nella precettistica, trascurando misericordia, amore e giustizia”. A me pare che la tentazione di rinchiudersi nel rispetto formale di precetti e regole sia una tentazione che appartiene alla natura umana; vi è nell’uomo la tentazione di cercare e trovare rassicurazione e conferma della propria perfezione, superiorità, bravura, del proprio essere a posto attraverso la formale osservanza di precetti e regole, a prescindere dall’intenzione che anima questa osservanza. Precetti e regole diventano, in questo senso, mezzi di autosalvezza e autoaffermazione; qual è la sua impressione? “Penso che sia proprio così: di certo questa tendenza è diffusa e operante, lo si vede bene anche ai nostri giorni. E’ in fondo la tentazione, che tutti gli uomini hanno, di risolvere le cose nel modo più semplice. La vita ebraica perfettamente aderente ai 630 precetti è terribilmente complicata, ma è sempre molto più difficile e complicato comprendere cosa significhi, concretamente, fare il bene e applicare i valori morali universali della Torah alle decisioni, talvolta anche molto complesse, che dobbiamo prendere nel corso della vita. A me colpisce molto il fatto che vi siano ebrei che rimpiangono la vita nei ghetti orientali, quando, pur con molte limitazioni e non senza difficoltà e talora persecuzioni, veniva condotta un’esistenza separata dal resto del mondo e rispettosa dei precetti. Ancora oggi il rapporto con il mondo esterno è per taluni ebrei un problema, e la tentazione di chiudersi è presente in non poche comunità, specie in Europa, dove la presenza ebraica è diventata numericamente modesta. Si tratta, lo ripeto, della via più facile, che gli uomini sono istintivamente tentati di scegliere. Penso che se una religione, in particolare l’ebraismo, non sente la necessità e il dovere di proporre il suo messaggio al mondo e si riduce a un meccanismo di rassicurazione e autosalvezza è destinata a scomparire, proprio come è scomparsa la civiltà greca che ha lasciato all’umanità il grande patrimonio della sua filosofia. L’ebraismo, per il valore, la ricchezza e la bellezza del suo messaggio, è vitale, ha ancora molto da offrire al mondo: di ciò sono fortemente convinto”. Il rabbino Elio Toaff ha affermato: “Il compito, la missione del popolo ebraico, viene riassunto in questa frase della Torah: ‘Voi sarete per me un reame di sacerdoti, una gente consacrata’, sacerdoti dell’umanità e consacrati alla diffusione del monoteismo nel mondo. Io credo che il popolo ebraico abbia in un certo senso adempiuto a questo suo obbligo perché il monoteismo oggi, nel mondo, ha fatto passi da gigante”. Vorrei chiederle quali riflessioni le suggeriscono queste parole, anche in relazione alla nozione di salvezza da portare alle genti. “Annunciare e diffondere il monoteismo, l’esistenza di un solo ed unico Dio trascendente che parla all’uomo, è la missione del popolo ebraico ed è elemento centrale della redenzione. L’annuncio del monoteismo implica anche lotta all’idolatria in quanto essa è sempre connessa a una concezione politeistica. Naturalmente la nozione di salvezza include la rivelazione della legge morale, della distinzione fra ciò che è bene e ciò che è male, il Decalogo. Se noi oggi parliamo di una civiltà europea che – come ripetutamente sostiene Benedetto XVI – è la sintesi della tradizione ellenistica e di quella ebraico-cristiana è perché, mentre la speculazione greca ci ha consegnato il valore del logos e l’interpretazione razionale del natura e del mondo, quella ebraica e cristiana ci ha consegnato la trascendenza di Dio, la legge morale, il senso e il fine del mondo e dell’esistenza umana, il concetto di persona. Tema irrinunciabile per il popolo ebraico, connesso al monoteismo e al rifiuto di ogni idolatria, è la negazione del culto delle immagini, che immediatamente pone il problema del rapporto con l’invisibile. Mentre nelle antiche religioni pagane l’uomo viveva in un mondo popolato da dei che potevano essere visti nelle diverse forze della natura, per la religione ebraica, che per prima ha compreso e professato la trascendenza di Dio, il problema è quello di colmare l’abisso che si apre tra l’uomo e Dio e costruire e mantenere il rapporto con Lui. L’ebraismo ha sviluppato su questo tema un pensiero molto ricco, complesso, diverso ovviamente da quello cristiano che afferma non solo l’umanità ma anche la divinità di Gesù, ponte tra l’uomo e Dio. Sul piano esistenziale la salvezza è un processo di redenzione quotidiano che avviene, da un lato, attraverso una vita proba secondo i precetti della Torah, senza gli eccessi rigoristici che escludono misericordia e indulgenza, e dall’altro attraverso la trasmissione del messaggio rivelato da Dio. Per noi ebrei in ogni atto della vita quotidiana si compie quella che viene chiamata una Teshuvah, che letteralmente vuol dire ritorno a se stessi, ritorno sulla retta via, pentimento continuo e rigenerazione continua. Si tratta di misurare il senso della propria vita giorno per giorno e, per così dire, ripartire ad ogni istante da zero, ripensando a tutti i gesti compiuti e facendo ammenda degli errori: questa possibilità, questa visione dell’uomo è, a mio giudizio, estremamente affascinante, decisiva e molto ricca sia sul piano esistenziale sia su quello più propriamente teologico”. San Paolo diceva: “Fides ex auditu”, la fede nasce dall’ascolto, dall’ascolto di Dio che si è gratuitamente rivelato, entra in dialogo con l’uomo, desidera la comunione con lui e lo ama. Testo basilare della dottrina ebraica è lo Shema’ Israel, Ascolta Israele, l’incipit del discorso di Mosè che consegna al popolo il Decalogo (Dt 5,1); cosa rappresenta per lei l’ascolto della Parola di Dio? “E’ fondamentale, come per ogni ebreo. Anche quando sono in vacanza, in montagna, porto con me una edizione tascabile della Bibbia: mi piace, mentre sto facendo una camminata, fermarmi, di tanto in tanto, a leggerne dei passi. In quelle pagine so e confido di trovare parole sempre nuove che mi aiutano nella comprensione della realtà e di me stesso. Oggi, specie negli ambienti ispirati a un razionalismo materialista, vi è grande cecità a proposito della Bibbia: è considerata un cumulo di banali raccontini privi di veridicità. Certo, come viene detto nella tradizione kabbalistica, ‘se dovessimo prendere la Torah come un semplice insieme di raccontini di fatti, chiunque potrebbe comporne una migliore’. Il punto è che la Bibbia è altro: è Parola di Dio, Rivelazione; è un testo scritto da uomini ispirati da Dio che narrano e testimoniano lo svelarsi di Dio, della legge morale, del senso del mondo e della vita. Nessun testo al mondo consente come la Bibbia di scoprire la legge morale universale, che è decisiva per l’esistenza di ogni persona. Il testo biblico contiene moltissimi ‘strati’, va scavato, approfondito, e offre sempre nuovi spunti di riflessione, di comprensione della verità del mondo, della natura umana e di se stessi; considero affascinante, stimolante e necessario anche tutto il corpus di interpretazioni della Parola di Dio che si sono accumulate lungo i secoli e che mettono in luce i molteplici aspetti e ‘strati’ della Rivelazione, che è stata progressiva così come progressiva è stata la comprensione di questa Rivelazione da parte degli uomini. La lettura della Bibbia, Libro dopo Libro, episodio dopo episodio, porta a capire non solo lo sforzo di comunicazione di Dio, il suo desiderio di rivelarsi, farsi conoscere come un Dio che dona la legge morale ed è vicino all’uomo, ma anche l’enorme sforzo di comprensione della trascendenza e interpretazione del messaggio divino compiuto dagli uomini. La Bibbia è il dialogo fra Dio e l’uomo: il Libro di Giobbe, in questo senso, è paradigmatico. Nel momento in cui si abbandona la visione ingenua di un mondo popolato da divinità che sono come dei superuomini, che hanno vizi e virtù umane, lanciano fulmini e regolano i venti, e invece si concepisce e si scopre Dio come trascendenza, come essere Altro, si apre la questione del dialogo e del rapporto fra l’uomo e Dio, che certo è infinitamente più complesso del dialogo con una ninfa o con il dio dei venti. Per questo, poc’anzi, parlavo di abisso da colmare”. Nel secondo brano da lei scelto, dopo il monito di Dio e il richiamo a operare il bene, Dio dice: “Su venite e discutiamo. Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana. Se sarete dolci e ascolterete, mangerete i frutti della terra”. (Is 1,18-19). Quali considerazioni le suggeriscono queste parole? “Queste parole mostrano la tenerezza e la misericordia di Dio, due aspetti che emergono chiaramente anche in altre pagine della Bibbia, ad esempio nel Libro dei Salmi. Nell’ebraismo il rapporto con Dio è descritto e inteso come un rapporto amoroso e non in termini vaghi, ma in senso pieno e profondo, tanto da essere anche rappresentato come un rapporto quasi sessuale; non a caso nell’ebraismo l’atto sessuale tra marito e moglie è considerato come un atto santo in cui passa il rapporto con il divino. Spesso si contrappone il Dio dell’Antico Testamento, duro, severo, sempre pronto a punire l’uomo, al Dio del Nuovo Testamento, Dio dell’amore e della misericordia. A mio giudizio questa contrapposizione – frutto in gran parte della sempre diffusa ostilità verso gli ebrei – non si dà: c’è piuttosto continuità fra ebraismo e cristianesimo, progressiva comprensione da parte dell’uomo e progressiva rivelazione di Dio, ‘lento all’ira e ricco di misericordia’, come si dice nell’Antico Testamento. Naturalmente – come già dicevo – la questione che ci divide riguarda la natura divina di Gesù e non è certamente un tema di poco conto. E’ la questione cruciale al centro del dialogo, che io giudico molto positivamente, fra Benedetto XVI e il rabbino Jacob Neusner. Un dialogo siffatto è necessario, costruttivo e fecondo per entrambe le parti e, sebbene in taluni ambienti possano manifestarsi chiusure o resistenze, ritengo indispensabile che le persone di buona volontà continuino a confrontarsi e a lavorare insieme, soprattutto su quei temi che più ci vedono vicini, come ad esempio i principi morali da annunciare e testimoniare al mondo”.
Sempre dal FOGLIO, una breve scheda biografica di Giorgio Israel, collaboratore di Informazione Corretta:
GIORGIO ISRAEL, nato nel 1945, è professore ordinario presso il Dipartimento di Matematica dell’Università La Sapienza di Roma. Già direttore di ricerche associato presso l’École des hautes études en Sciences sociales di Parigi, è membro della Académie Internazionale d’Histoire des Sciences. Il suo campo di ricerche è la storia della scienza e della matematica. Studia inoltre le relazioni tra pensiero scientifico e pensiero religioso e teologico. Tra i suoi libri più recenti: “La macchina vivente” (Bollati Boringhieri), “La Kabbalah’ (Il Mulino), “Liberarsi dei demoni. Odio di sé, scientismo e relativismo” (Marietti), “Chi sono i nemici della scienza?” (Lindau).
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