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Il Foglio Rassegna Stampa
30.08.2008 Il mondo dopo l'11 settembre è quello di Bush, non quello dell'Europa
un'analisi di Robert Kagan

Testata: Il Foglio
Data: 30 agosto 2008
Pagina: 8
Autore: Robert Kagan
Titolo: «PER SCONFIGGERE IL TERRORISMO OCCCORRE CHE VENERE SI AFFIDI A MARTE»
Il FOGLIO del 30 agosto 2008 riprende dal numero di settembre della rivista Foreign Affairs il seguente articolo dell'analista Robert Kagan:

Il mondo oggi non appare come si prevedeva alla caduta del muro di Berlino, nel 1989. La competizione delle grandi potenze avrebbe dovuto lasciare spazio a un’era di geoeconomia. La competizione ideologica tra democrazia e autocrazia terminata con “la fine della Storia”. Pochi si aspettavano che il potere senza precedenti degli Stati Uniti avrebbe affrontato così tante sfide, non soltanto da parte delle potenze emergenti, ma anche da parte dei vecchi alleati. Quanto di questo destino era già scritto nelle stelle e quanto negli stessi americani? E cosa possono farci ora – se mai ci sia qualcosa che si possa fare – gli Stati Uniti? Per quanto possa essere difficile da ricordare, i problemi degli Stati Uniti con il mondo – o meglio i problemi del mondo con gli Stati Uniti – sono iniziati ben prima che George W. Bush diventasse presidente. Il ministro degli Esteri francese, Hubert Védrine, protestò contro l’“iperpotenza” nel 1998. Nel 1999, Samuel Huntington sostenne sulle pagine di Foreign Affairs che la maggior parte del mondo vedeva gli Stati Uniti come una “superpotenza canaglia, invadente, interventista, sfruttatrice, unilaterale, egemonica, ipocrita”. Sebbene Huntington e altri rimproverassero all’Amministrazione Clinton il costante vanto del “potere e della virtù americane”, non furono i clintoniani a inventare la convinzione americana di essere più virtuosi degli altri. La fonte del problema fu il cambiamento geopolitico che seguì al crollo dell’Unione Sovietica e i sottili effetti psicologici sul modo in cui gli Stati Uniti e altre potenze percepivano se stesse e si percepivano l’un l’altra. Alla fine degli anni Novanta si parlava già di una crisi nelle relazioni transatlantiche. La causa alla base di questa crisi era semplice: gli alleati non avevano più bisogno gli uni degli altri come prima. L’impulso a cooperare durante la Guerra fredda era formato per un quarto da virtù illuminata e per tre quarti da pura necessità. L’alleanza si fondava sulla dipendenza reciproca, non sul reciproco affetto. Quando la minaccia sovietica scomparve, le due parti furono libere di andare ognuna per la sua strada. E fino a un certo punto lo fecero anche. L’Europa, liberata dalla paura dell’Unione sovietica, sì consumò nel duro sforzo di costruire la nuova Europa. Negli anni Novanta, l’Unione europea tracciò un nuovo corso nell’evoluzione umana dando prova del fatto che le nazioni potevano mettere in comune la sovranità e sostituire la politica delle potenze con la legge internazionale. Questo ha aiutato ad alimentare un’era in cui si stabilivano le regole e si costruivano le istituzioni. Per molti – ma soprattutto per gli europei – un nuovo dialogo internazionale sulla governance globale soppiantò le vecchie preoccupazioni della Guerra fredda. L’inquietudine sui cambiamenti climatici portò al Protocollo di Kyoto. Stava per nascere una nuova Corte penale internazionale. Molti lavoravano alla ratifica internazionale del trattato per la completa messa al bando dei test nucleari, un rafforzamento del regime di non proliferazione nucleare, e di un nuovo trattato che mettesse al bando le mine. Il premier inglese, Tony Blair, parlò di una “dottrina della comunità internazionale” in cui gli interessi comuni di tutta l’umanità erano superiori agli interessi individuali delle nazioni. Negli Stati Uniti il confronto è rimasto molto tradizionale. I funzionari di Clinton condividevano la prospettiva europea ma credevano anche che gli Stati Uniti dovessero giocare un ruolo speciale come guardiani della sicurezza internazionale – i leader “indispensabili” della comunità internazionale – in un modo tradizionale, orientato alla potenza, stato-centrico. Di fronte a crisi come quella di Taiwan o a quelle in Iraq e in Sudan inviarono le portaerei e lanciarono missili, spesso unilateralmente. Persino Bill Clinton non avrebbe sostenuto il trattato sulle mine o la Corte penale internazionale senza salvaguardare il ruolo speciale degli Stati Uniti. Il mondo era ancora pieno di “predatori” internazionali – mise in guardia l’allora presidente – di terroristi e “nazioni fuorilegge” alla ricerca di “arsenali di armi nucleari, chimiche e biologiche e dei missili per portarle a destinazione”. Gli uomini di Clinton non potevano nemmeno nascondere la loro impazienza nei confronti di quella che vedevano come una mancanza di serietà su questi pericoli – in particolare sull’Iraq – da parte dell’Europa. Come disse il segretario di stato Madeleine Albright: “Se dobbiamo usare la forza è perché siamo l’America. Vediamo più in là nel futuro”. La fine della Guerra fredda diede a tutti una possibilità di guardarsi con occhi nuovi e agli europei lo spettacolo non piacque. La società americana sembrava loro stupida e brutale – come lo era stata per i loro antenati del Diciannovesimo secolo. Un ex ministro degli Esteri francese, Hubert Védrine, chiese all’Europa di contrapporsi all’egemonia americana in parte come difesa dalla diffusione dell’americanismo. “Non possiamo accettare un mondo politicamente unipolare – disse – è per questo che stiamo lottando per averne uno multipolare”. Verso la fine degli anni Novanta i tempi sembravano maturi per il multipolarismo. Le relazioni americane con la Cina e la Russia si stavano inacidendo. I cinesi lamentavano da tempo le ambizioni “superegemoniche” degli Stati Uniti e Pechino considerava Washington ostile alla potenza crescente della Cina. Il nazionalismo antiamericano esplose dopo il bombardamento accidentale dell’ambasciata cinese a Belgrado nel 1999 durante la guerra in Kosovo, guerra che Russia e Cina consideravano illegale. Il ministro degli Esteri russo, Igor Ivanov, la definì la peggiore aggressione in Europa dalla Prima guerra mondiale. Certo non giovò all’umore russo che il 1999 fosse anche l’anno dell’ingresso nella Nato della Repubblica Ceca, dell’Ungheria e della Polonia. I giorni di una Russia aquiescente, desiderosa di integrarsi nell’occidente liberale alle condizioni dell’Occidente stavano finendo. Il presidente russo, Boris Eltsin, nominò premier Vladimir Putin nell’agosto del 1999. Putin invase la Cecenia a settembre e in meno di un anno avrebbe guidato la Russia verso un futuro più nazionalista e meno democratico. George W. Bush fece il suo ingresso in questo mondo che si stava frammentando. Già da tempo i fumettisti lo disegnavano come un cowboy texano con una rivoltella a sei colpi e un cappio. Il politico francese Jack Lang lo chiamò “assassino seriale”. Martin Kettle del Guardian scrisse il 7 gennaio del 2001 sul Washington Post che “la crescente impazienza globale” verso gli Stati Uniti era antecedente a Bush, ma che la sua elezione fu “il miglior sergente arruolatore che il nuovo antiamericanismo avrebbe mai potuto sperare di avere”. L’ironia, una delle molte, sta nel fatto che Bush è salito in carica sperando di diminuire le ambizioni globali degli Stati Uniti. Era in voga il realismo nella politica estera. Quando nei dibattiti presidenziali gli chiesero quali principi dovessero guidare la politica estera americana, il candidato democratico Al Gore disse che era “una questione di valori”. Bush disse che la cosa riguardava “ciò che è nell’interesse migliore degli Stati Uniti”. Gore disse che gli Stati Uniti, “leader naturali” del mondo, dovevano “avere un senso di missione” e dare ad altri popoli “il modello che li aiuterà ad assomigliare di più a noi”. Bush disse che l’America non avrebbe dovuto “andare in giro per il mondo e dire ‘così è come deve essere’”, che questo era “il modo per finire con l’essere visti come gli americani cattivi”. Ma il marchio di realismo dell’Amministrazione Bush, si è scoperto, non riscuoteva simpatie nemmeno in giro per il mondo. I funzionari di Bush disdegnavano i colloqui internazionali degli anni Novanta. Nei suoi primi sei mesi, l’Amministrazione uscì dai lavori per il protocollo di Kyoto, dichiarò la sua opposizione al Tribunale penale internazionale e al trattato di messa al bando totale dei test nucleari e iniziò a uscire dal trattato per i missili antibalistici. Alcuni di questi accordi erano già morti sotto Clinton, ma l’ex presidente aveva provato a placare la rabbia internazionale offrendo la speranza che gli Stati Uniti avrebbero forse potuto ratificarli. Bush, invece, all’egevi si oppose in via di principio. Come negli anni Venti, i repubblicani si preoccupavano degli accordi che potevano in qualche modo diminuire la sovranità americana. Condoleezza Rice, allora consigliere di Bush per la politica estera e “realpolitiker” per sua stessa definizione, si lamentò nel 2000, su Foreign Affairs, del discorso campato in aria sugli “interessi umanitari”. La politica estera americana doveva essere radicata nella “terra solida dell’interesse nazionale”, non “nell’interesse di un’illusoria comunità internazionale”. Dietro il nuovo approccio c’era un calcolo realista: nel mondo nuovo del dopo Guerra fredda, gli interessi e gli obblighi americani si sono contratti. C’era bisogno di una politica estera più circoscritta e basata sugli interessi. La maggior parte dei funzionari di Bush concordava con la critica dello studioso Michael Mandelbaum – pubblicata anche sullo stesso Foreign Affairs nel 1996 – che l’Amministrazione Clinton si fosse impegnata in una “opera sociale” internazionale nei Balcani e a Haiti, dove non c’era in gioco nessun interesse nazionale vitale. Il candidato Bush, quando gli chiesero se avrebbe inviato truppe in Rwanda, disse che gli Stati Uniti non dovevano “inviare l’esercito per fermare la pulizia etnica e il genocidio in nazioni al di fuori del proprio interesse strategico”. Una volta in carica, i realisti di Bush – dal vicepresidente Dick Cheney a Rice, dal segretario della Difesa Donald Rumsfeld al segretario di stato Colin Powell – concordavano tutti sul fatto che bisognasse evitare gli interventi umanitari. La strategia era quella di trasformare gli Stati Uniti in un “bilanciatore d’oltreoceano” che intervenisse soltanto come ultima risorsa, o, per dirla con le parole di Richard Haass, uno “sceriffo riluttante”. Durante la campagna del 2000, Rice parlò di una “nuova divisione del lavoro”, nella quale i poteri locali avrebbero mantenuto la pace locale mentre gli Stati Uniti avrebbero fornito il supporto logistico e di intelligence ma non le truppe di terra. Richard Perle sostenne l’idea di un nuovo atteggiamento militare in cui le forze armate americane sarebbero state dimezzate. I problemi globali sarebbero stati gestiti non con l’esercito ma con i missili di precisione teleguidati. Si poteva affrontare unilateralmente la minaccia immediata – proveniente dagli stati canaglia dotati di missili a lunga gittata – attraverso la difesa missilistica. Era tempo di fare una “pausa strategica”, nel corso della quale gli Stati Uniti avrebbero potuto alleggerire il loro fardello globale e prepararsi alle minacce che sarebbero potute emergere nel giro di venti o trent’anni. Dal punto di vista dei realisti, un mondo in cui gli interessi nazionali americani non fossero seriamente minacciati era un mondo in cui il potere e l’influenza degli Stati Uniti dovevano essersi, necessariamente, ridotti. Gli Stati Uniti, per dirla in un altro modo, non erano più interessati alla leadership globale – non come lo erano stati durante la Guerra fredda. Nel 1990, con la sconfitta del comunismo e dell’impero sovietico, Jeane Kirkpatrick sostenne che gli Stati Uniti dovessero smetterla di portare “l’insolito fardello” della leadership e dovessero, “con un ritorno ai tempi ‘normali’, tornare ad essere una nazione normale”. Come scrisse John Bolton in un saggio del 1997, era il momento “di riconoscere che ora ci siamo lasciati la nostra più grande sfida alle spalle”. La maggior parte del mondo poteva prendersi cura di se stessa, ora, così come avrebbero fatto gli Stati Uniti. Questa era a grandi linee la politica che Bush perseguì durante i suoi primi nove mesi alla Casa Bianca, e il resto del mondo ricevette in fretta il messaggio. Secondo un sondaggio del Pew Research Center pubblicato nell’agosto 2001, il settanta per cento degli europei occidentali intervistati (l’85 per cento in Francia) credeva che l’Amministrazione Bush prendesse decisioni “basate soltanto sugli interessi degli Stati Uniti”. “Siamo tutti americani”: è stata questa la risposta generale agli attentati terroristici dell’11 settembre 2001. Quegli attentati, naturalmente, hanno determinato un mutamento nella politica estera dell’Amministrazione Bush. Ma non si è trattato di una svolta radicale. L’Amministrazione Bush non ha abbandonato l’approccio fondato sulla cura prioritaria dell’interesse nazionale. Semplicemente, la protezione di quest’interesse – anche nella sua definizione più limitata, come la difesa della madrepatria – ha improvvisamente richiesto una strategia globale più vasta e aggressiva. Il tempo della “pausa strategica” era terminato e gli Stati Uniti sono dovuti tornare a un intenso coinvolgimento a livello globale in quella che è stata definita la “guerra contro il terrorismo”. Questo ha significato che gli Stati Uniti hanno dovuto riprendere in mano anche la leadership mondiale? L’Amministrazione Bush ne era convinta; ma c’erano gravi ostacoli a impedire un facile ritorno alla leadership caratteristica degli anni della Guerra fredda in un mondo post Guerra fredda e post 11 settembre. Un primo ostacolo stava proprio nella comprensibile riflessione sull’11 settembre. Il primo segnale del fatto che non sarebbe stato facile resuscitare l’antica solidarietà si è avuto a Kabul. L’invasione dell’Afghanistan – a differenza della guerra in Kosovo e della prima guerra del Golfo nel 1991 – è stata combattuta con lo scopo primario di garantire la sicurezza degli Stati Uniti e non di forgiare un “nuovo ordine internazionale”. A differenza della prima guerra del Golfo nel 1991, quando il presidente George H. W. Bush fece ogni possibile sforzo per coinvolgere la comunità internazionale, nella guerra in Afghanistan l’Amministrazione americana ha pensato unicamente alla necessità di eliminare le basi di al Qaida e rovesciare il governo talebano, per la qual cosa era necessario agire rapidamente e senza preoccuparsi di tutti quei problemi di gestione dell’alleanza che avevano ostacolato il generale Wesley Clark al tempo della guerra in Kosovo. Questo nuovo tipo di approccio non è stato certo una sorpresa, considerando il panico e la rabbia suscitati negli Stati Uniti dagli attentati dell’11 settembre. E non è stata una sorpresa neppure il fatto che gli Stati Uniti sono stati percepiti non come un leader globale impegnato a realizzare il bene globale ma come un infuriato leviatano impegnato esclusivamente a distruggere chi aveva osato attaccarlo. Per quest’ultimo fine il mondo non mostrava grande simpatia. Ed ecco il secondo ostacolo che ha impedito un facile ritorno all’antica leadership degli Stati Uniti: anche il resto del mondo, compresi gli alleati più stretti degli Stati Uniti, era concentrato esclusivamente su se stesso e sui propri specifici interessi. Non c’era alcun modo di sfuggire alla realtà della situazione del dopo 11 settembre. Ciò che era accaduto era accaduto soltanto agli Stati Uniti. L’Europa e quasi tutto il resto del mondo ha reagito mostrando orrore, cordoglio e solidarietà. Gli americani hanno dato un valore eccessivo a queste manifestazioni di solidarietà, credendo che il mondo condividesse non soltanto il loro dolore ma anche i loro timori sulla minaccia terroristica e che fosse pronto a unirsi con gli Stati Uniti per combattere insieme il terrorismo. Alcuni osservatori americani continuano a essere ancora oggi prigionieri di questa illusione. In realtà, il resto del mondo non condivideva affatto i timori dell’America né la sua convinzione sulla necessità di una risposta immediata. Gli europei erano stati al fianco della superpotenza americana durante la Guerra fredda, quando l’Europa stessa era minacciata e l’America era una garanzia di sicurezza; ma dopo la fine della guerra, e persino dopo l’11 settembre, gli europei si sentivano relativamente al sicuro. Soltanto gli americani avevano paura. Quando lo shock e l’orrore sono passati è apparso chiaro che gli attentati dell’11 settembre non avevano alterato in modo sostanziale l’atteggiamento del mondo nei confronti degli Stati Uniti e i risentimenti rimanevano forti come prima. Un sondaggio sui più autorevoli opinionisti europei condotto nel dicembre del 2001 ha rivelato che, pur dichiarandosi tutti “tristi di vedere ciò che stava subendo l’America”, la maggior parte riteneva che fosse “un bene che l’America sapesse finalmente che cosa significa essere vulnerabili”. Molti opinionisti pensavano che “le politiche e le azioni degli Stati Uniti nel mondo” erano state una delle “cause principali” degli attentati terroristici. Molti erano inoltre convinti che gli Stati Uniti combattessero la guerra contro il terrorismo badando esclusivamente ai propri interessi. In Europa occidentale, il 66 per cento degli opinionisti sosteneva che l’America pensasse esclusivamente a se stessa. La cosa non era affatto sorprendente, visti i pochi sforzi compiuti dall’Amministrazione Bush per convincerli del contrario o per trasformare la guerra in Afghanistan in una battaglia per la creazione di un nuovo ordine internazionale. Ciononostante, gli americani non pensavano di comportarsi da egoisti. Circa il settanta per cento degli opinionisti americani sosteneva che gli Stati Uniti agivano anche nell’interesse dei loro alleati. Questo gap nella percezione ha creato un grave problema per il paradigma della “guerra al terrorismo”. Gli americani, improvvisamente ripiombati in un impegno globale, ritenevano di aver riacquisito la leadership globale. Il resto del mondo, però, non la pensava affatto così. Giudicata sulla base del proprio paradigma interno, la guerra al terrorismo è stata il maggior successo dell’Amministrazione Bush. Nessun osservatore avrebbe mai immaginato che sarebbero passati già sette anni interi senza alcun attentato sul suolo americano. Soltanto la pura partigianeria e il comprensibile timore di sfidare il destino hanno impedito all’Amministrazione Bush di vedersi attribuito il merito di ciò che la maggior parte della gente sette anni fa avrebbe considerato un vero e proprio miracolo. Buona parte di questo successo, però, è stato dovuto a un’intensa collaborazione internazionale, specialmente con le potenze europee, nei settori dell’intelligence, dell’imposizione della legge e della sicurezza nazionale. Malgrado tutti gli errori e gli insuccessi che abbia potuto commettere e subire, l’Amministrazione Bush ha saputo senza dubbio proteggere gli americani da un ulteriore attacco contro la propria patria. La prossima amministrazione potrà dirsi fortunata se riuscirà a fare lo stesso – e sarà negativamente confrontata con quella di Bush se non ci riuscirà. Il problema del paradigma della “guerra al terrorismo” non sta nel fatto che non sia riuscito a realizzare il suo primo e più fondamentale obiettivo, ma nel fatto che si tratta di un paradigma incapace di rappresentare il perno sul quale basare l’intera politica estera americana. In un mondo di stati e popoli egoisti – ossia nel mondo in cui viviamo oggi – la questione rimane sempre la stessa: “Che cosa ci guadagniamo noi?”. L’inadeguatezza del paradigma della guerra al terrorismo deriva dal fatto che, a parte gli Stati Uniti, quasi nessuna altra nazione considera il terrorismo come la principale mi naccia da affrontare. La battaglia ingaggiata dagli Stati Uniti non è stata percepita come una lotta condotta nell’interesse del “bene pubblico” internazionale, di cui tutto il mondo dovrebbe essere grato. Al contrario, quasi tutte le nazioni ritengono di fare un favore agli Stati Uniti quando inviano truppe in Afghanistan o in Iraq, spesso nella convinzione di sacrificare in questo modo i propri specifici interessi. Tutti i paradigmi di politica estera mostrano ovviamente dei difetti. Il paradigma del contenimento anticomunista era anch’esso inadeguato, perché, dal 1947 al 1989, non è stata in ballo soltanto la lotta tra comunismo e capitalismo democratico. Ciononostante, l’anticomunismo ha contribuito a consolidare l’alleanza tra gli Stati Uniti e altre nazioni e a far accettare la loro leadership. Che era ben più importante dell’immagine che l’America poteva avere, non sempre immacolata. Il motivo per cui la guerra del Vietnam non ha provocato le stesse lacerazioni nel sistema d’alleanze degli Stati Uniti non sta nel fatto che l’America di Lyndon Johnson e di Richard Nixon era più amata, ma nel fatto che gli Stati Uniti erano in grado di garantire cose che le altre nazioni ritenevano necessarie (in particolare la protezione dalle mire dell’Unione sovietica), e per questo erano disposte a chiudere gli occhi sul Vietnam e su una società che in soltanto sette anni era stata capace di produrre gli assassinii di Martin Luther King e Robert Kennedy, le rivolte di Watt, il massacro di Kent e il Watergate. La guerra al terrorismo non è mai riuscita a essere il perno di un’analoga alleanza internazionale. La Cina e la Russia ne sono state felici, perché ha distratto l’attenzione dell’America e perché entrambe vi hanno visto una specifica utilità, dato che per Mosca essa ha significato una guerra contro i ceceni e per Pechino una guerra contro gli uiguri. Per quasi tutti gli alleati tradizionali degli Stati Uniti è stata, inveceuna non gradita distrazione dalle questioni per loro più importanti. Per l’Europa è stata ben più che una distrazione. Gli americani credono che gli europei condividano le loro preoccupazioni sul fondamentalismo islamico. Ma le preoccupazione degli europei sono altre. Per gli americani il problema è “laggiù”, nelle lontane e sconosciute regioni dalle quali il terrorismo islamico può lanciare i suoi attacchi; e perciò anche la soluzione sta “laggiù”. Per gli europei, il fondamentalismo islamico è innanzitutto una questione interna, il problema di trovare un modo in cui poter assimilare i musulmani nella società del Ventunesimo secolo. Secondo gli europei le azioni degli Stati Uniti non fanno che aggravare i problemi del Vecchio continente. Quando gli americani distruggono un nido di vespe, le vespe sciamano in Europa: ecco cosa temono gli europei. La guerra al terrorismo, in poche parole, è stata causa di divisione e non di unità. Gli Stati Uniti – che negli anni Novanta erano già visti da molti come un’arrogante potenza – dopo l’11 settembre hanno finito per essere diffusamente percepiti come una nazione egoista, oppressiva e del tutto incurante delle conseguenza delle sue azioni. E’ da questa prospettiva che molti hanno giudicato la decisione di attaccare l’Iraq nel 2003. Ecco un’altra grande ironia della storia: il rovesciamento di Saddam Hussein è stata una delle azioni meno egoistiche compiute dagli Stati Uniti del dopo 11 settembre, molto più consona alla precedente immagine di responsabili e giudiziosi leader mondiali che a quella ben più aggressiva dell’Amministrazione Bush. L’invasione dell’Iraq era legata solo parzialmente alla guerra contro il terrorismo. Anche l’Amministrazione Clinton aveva mostrato preoccupazioni per le connessioni di Saddam con i terroristi e aveva fatto leva proprio su queste connessioni per giustificare il proprio intervento militare nel 1998. Lo stesso Clinton aveva ribadito che se gli Stati Uniti non fossero intervenuti contro Saddam, il mondo “avrebbe visto sempre più gravi minacce del genere che pone oggi l’Iraq: uno stato canaglia con armi di distruzione di massa, pronto a usarle o a darle ai terroristi, ai trafficanti di droga o a criminali che girano per il mondo senza che noi ce ne accorgiamo”. Dopo l’11 settembre si è avuta ben meno tolleranza nei confronti delle minacce e questo spiega perché realisti come Dick Cheney – precedentemente convinto che Saddam avrebbe potuto essere facilmente tenuto a bada – hanno improvvisamente cambiato opinione. La stessa logica ha spinto la senatrice Hillary Clinton e molti altri democratici, e persino alcuni repubblicani del Congresso, ad autorizzare l’uso della forza nell’ottobre 2002. Ed è sempre per lo stesso motivo che non vi è stata praticamente alcuna aperta opposizione alla guerra. L’editorialista del Time Joe Klein ha dato voce all’opinione diffusa quando, in un’intervista rilasciata poco prima dello scoppio della guerra, ha dichiarato: “Prima o poi questo ceffo deve comunque essere tolto di mezzo. Il messaggio deve essere mandato, perché se non lo si manda ora darà coraggio a tutti gli aspiranti Saddam che sono in giro per il mondo”. Le principali motivazioni dell’invasione dell’Iraq erano però antecedenti alla guerra contro il terrorismo e persino precedenti al realismo di Bush. Erano già parte integrante della visione degli interessi americani caratteristica degli anni di Clinton e della Guerra fredda. Negli anni Novanta l’Iraq era visto da molti non come una minaccia diretta agli Stati Uniti ma come un problema di ordine internazionale, nei confronti del quale l’America aveva una speciale responsabilità. L’allora consigliere per la Sicurezza nazionale, Sandy Berger, nel 1998 ha dichiarato: “Il futuro dell’Iraq influenzerà profondamente l’evoluzione del medio oriente e del mondo arabo nei prossimi decenni”. E’ proprio per questo che personalità come Richard Armitage, Francis Fukuyama e Robert Zoellick nel 1998 hanno firmato una lettera nella quale si chiedeva il rovesciamento di Saddam. Ed è ancora per questo che molti liberal, con loro stessa meraviglia, sostennero la guerra (nell’elenco di questi figurano opinionisti del New York Times e del Washington Post, le redazioni del New Yorker, di New Republic e di Slate, nonché parecchi ex funzionari dell’Amministrazione Clinton). I liberal e i progressisti hanno sostenuto la guerra in Iraq per lo stesso motivo per cui avevano precedentemente appoggiato la guerra nei Balcani: un intervento necessario per preservare l’ordine internazionale fondato sui principi liberali. Avrebbero preferito che gli Stati Uniti ottenessero l’appoggio dell’Onu sulla guerra ma sapevano che la cosa si era già dimostrata impossibile nel caso del Kosovo. La loro principale preoccupazione era che l’Amministrazione Bush, dopo avere rovesciato Saddam, assumesse un atteggiamento strettamente realista per affrontare le difficoltà dell’immediato dopoguerra. Come disse il senatore Joe Biden: “Alcuni responsabili della situazione non hanno alcuna intenzione di attuare un processo di nation building”. Un ex funzionario di Clinton, Ronald Asmus, domandò: “Questo riguarda la democrazia o la potenza americana?”. Se riguardava la democrazia, aggiunse, gli Stati Uniti avrebbero “un maggior sostegno in patria e più amici all’estero”. L’ampio consenso fra conservatori, liberal, progressisti e neoconservatori americani, tuttavia, non si è affermato nel resto del mondo. Per gli europei, c’era una grande differenza tra il Kosovo e l’Iraq. Non si trattava di una questione di legalità o di autorità dell’Onu ma di un problema di collocazione geografica. Gli europei erano pronti a entrare in guerra anche senza l’autorizzazione dell’Onu se si trattava della loro sicurezza, della loro storia e del loro senso etico. Ma l’Iraq era una cosa diversa. Per i liberal americani come l’editorialista del New York Times Thomas Friedman, “il cinismo e l’insicurezza dell’Europa, mascherati come superiorità morale” erano una “cosa insopportabile”. L’Iraq costituiva già da parecchio tempo una questione divisiva. Negli anni Novanta si è aperto un ampio divario tra gli Stati Uniti e il Regno Unito, favorevoli alle sanzioni economiche e alla pressione mimilitare sull’Iraq, e la Cina, la Francia e la Russia, favorevoli invece a una politica di contenimento. Nel 2000 l’Amministrazione Clinton cominciò a temere che il contenimento stesse diventando una politica non più attuabile, ma aveva già perso ogni possibilità di convincere le altre nazioni che le cose stessero esattamente così. Dopo il 2003 non molto è cambiato. La tolleranza del resto del mondo nei confronti dell’Iraq di Saddam Hussein non è stata ridotta dagli attentati dell’11 settembre, come è stata invece ridotta quella degli Stati Uniti. Al contrario, si è ridotta la tolleranza del mondo nei confronti degli Stati Uniti. Nel 2003 poche nazioni erano convinte dall’urgenza della guerra al terrorismo, dalle preoccupazioni umanitarie per l’Iraq o dal desiderio di vedere gli Stati Uniti nuovamente alla testa di una crociata internazionale per imporre l’ordine con la forza, come era invece avvenuto nel caso della prima guerra del Golfo nel 1991. Nessuno pensava che gli Stati Uniti si fossero improvvisamente messi ad agire in nome della difesa dell’ordine mondiale. Di conseguenza, molti ritenevano che il vero motivo della guerra in Iraq fosse il petrolio, Israele o l’imperialismo americano, o qualsiasi altra cosa tranne quella che proclamavano i sostenitori dell’intervento americano: una guerra combattuta nell’interesse tanto degli Stati Uniti quanto quelli di tutti i paesi migliori della comunità internazionale. Chissà cosa sarebbe successo se gli Usa avessero trovato quelle armi di distruzione di massa che tutti, compresi gli europei e i più accaniti avversari dell’intervento militare, ritenevano essere nascoste in Iraq? E anche in mancanza di tale ritrovamento, come avrebbe reagito il mondo se gli Stati Uniti fossero riusciti a riportare rapidamente l’ordine e la stabilità in Iraq? L’allora segretario di stato, Colin Powell, era convinto che, “una volta raggiunta la vittoria, la gente si renderà conto che siamo venuti per assicurare una vita migliore alla popolazione irachena” e che sarebbe stato possibile mutare “rapidamente” il giudizio dell’opinione pubblica. Non è naturalmente questo ciò che è accaduto. Gli Stati Uniti, dopo avere rovesciato la tirannia di Saddam, hanno subito iniziato a dimostrarsi incapaci di assicurare ordine e stabilità al paese. Ci sono molte ragioni che spiegano questo fallimento, tra cui gli errori e le sfortune tipiche di ogni guerra e il complesso frazionamento della società irachena. Ma parte della responsabilità va attribuita alla visione del mondo condivisa da molti importanti funzionari dell’Amministrazione Bush. Le più alte cariche del Pentagono rimanevano ancorate al concetto della “pausa strategica” e contrarie a un impiego massiccio delle forze di terra. Inoltre, come aveva temuto Biden, continuava a persistere l’allergia dei realisti repubblicani nei confronti dei progetti di nation- building. La conseguenza, sia in Afghanistan sia in Iraq, è stato l’utilizzo di un numero insufficiente di truppe per mantenere il comando effettivo del territorio e sopprimere le inevitabili battaglie di potere successive alla caduta della dittatura, nonché la mancanza delle competenze necessarie per avviare la rigenerazione sociale, economica e nazionale del paese. In Iraq, questi problemi sono apparsi evidenti già pochi mesi dopo l’invasione e all’Amministrazione americana sono occorsi quattro anni per rimediarvi. Alla fine è riuscita a riadattare la propria strategia e il risultato è che oggi le prospettive di successo in Iraq sono molto più concrete di quanto lo fossero due anni fa. Ma gli Stati Uniti hanno pagato un prezzo molto elevato per i loro errori. Quali che siano stati i danni arrecati dall’invasione alla reputazione americana, quelli arrecati da quattro anni di fallimenti (compreso quelli più spettacolari, come lo scandalo della prigione di Abu Ghraib) sono stati maggiori. In un mondo frazionato, l’unica cosa peggiore di una potenza egemone ed egoista è una potenza egemone, egoista e incompetente. La prossima Amministrazione ha la possibilità di fare tesoro degli errori compiuti dall’Amministrazione Bush, come anche di continuare a costruire sui progressi che ha recentemente ottenuto. Oggi la posizione degli Stati Uniti nel mondo non è affatto così difficile come alcuni sostengono. La previsione che altre potenze si sarebbero unite per contrastare le mire dell’unica superpotenza si sono dimostrate sbagliate. Altre potenze stanno effettivamente emergendo, ma non si stanno affatto unendo contro gli Stati Uniti. La Cina e la Russia desiderano ridurre la portata del predominio americano e aumentare la propria forza relativa, ma restano ancora profondamente sospettose l’una dell’altra almeno quanto lo sono nei confronti di Washington. Altre potenze in ascesa, come il Brasile e l’India, non sono interessate a controbilanciare il predominio americano. In effetti, nonostante quanto farebbero supporre i risultati di molti sondaggi, quasi tutte le grandi potenze del mondo si stanno avvicinando agli Stati Uniti sul piano geopolitico. Pochi anni fa la Francia di Jacques Chirac e la Germania di Gerhard Schröder hanno flirtato con la Russia pensando che potesse servire come contrappeso alla potenza americana. Ma oggi la Francia, la Germania e il resto dell’Europa stanno avviandosi nella direzione opposta. Questo non si deve a un nuovo amore per gli Stati Uniti. Le politiche estere più filo-americane del presidente francese, Nicolas Sarkozy, e del cancelliere tedesco, Angela Merkel, sono la conseguenza della loro convinzione che relazioni più strette, ma non servili, con gli Usa servano a rafforzare la potenza e l’influenza dell’Europa. Le nazioni dell’Europa dell’est, nel frattempo, sono alquanto preoccupate dalla nuova ascesa della Russia. In Asia e nel Pacifico molte nazioni si sono avvicinate agli Stati Uniti spinte dal timore della crescente potenza cinese. Alla metà degli anni Novanta, l’alleanza fra gli Stati Uniti e Giappone rischiava di incrinarsi gravemente; ma dopo il 1997 i due paesi hanno riallacciato strette relazioni. Anche diverse nazioni dell’Asia sudorientale hanno iniziato a mostrare forti preoccupazioni per l’ascesa della Cina. Il mutamento più notevole è avvenuto in India, precedentemente alleata di Mosca e oggi alla ricerca di buone relazioni con gli Stati Uniti, considerate essenziali per garantirle il raggiungimento dei suoi obiettivi strategici ed economici. Persino in medio oriente, dove l’antiamericanismo ribolle e le immagini dell’occupazione dell’Iraq e il ricordo di Abu Ghraib continuano a scatenare la rabbia popolare, l’equilibrio strategico non ha subito significativi cambiamenti. La Giordania, l’Egitto, l’Arabia Saudita e il Marocco continuano a collaborare strettamente con gli Stati Uniti, esattamente come fanno le nazioni del Golfo Persico, preoccupate dall’Iran. L’Iraq, già implacabile avversario dell’America sotto Saddam Hussein, dipende ora dagli Stati Uniti. Nei prossimi anni, un Iraq stabile farebbe spostare l’ago della bilancia strategica decisamente a favore dello schieramento filo-americano, dato che possiede enormi riserve petrolifere e potrebbe diventare un’importante potenza regionale. Questa situazione è in netto contrasto con i pesanti rovesci strategici subiti dagli Stati Uniti durante la Guerra fredda. Negli anni Cinquanta e Sessanta il movimento nazionalista panarabo divampò in tutta la regione e aprì le porte a un più intenso coinvolgimento sovietico, compresa una quasi alleanza di Mosca con l’Egitto di Gamal Abdel Nasser, nonché con la Siria. Nel 1979, quando lo Shah filoamericano dell’Iran fu rovesciato dalla rivoluzione antiamericanista dell’ayatollah Khomeini, è crollato uno dei pilastri fondamentali della posizione strategica americana nella regione. Questo ha determinato un decisivo spostamento nell’equilibrio strategico regionale, di cui gli Stati Uniti subiscono ancora oggi le ripercussioni. Nulla di simile è ancora accaduto come conseguenza della guerra irachena. Gli strateghi cinesi ritengono che la situazione internazionale sia destinata a permanere ancora per un certo tempo, e probabilmente hanno ragione. Finché gli Stati Uniti restano il perno centrale dell’economia internazionale, la potenza militare predominante e il paladino della filosofia politica più popolare al mondo; finché l’opinione pubblica americana continua ad appoggiare il predominio americano, come ha sempre fatto nel corso degli ultimi sessant’anni; e finché i possibili sfidanti suscitano più timori che simpatie tra i loro vicini, la struttura del sistema internazionale è destinata probabilmente a restare la stessa, con una sola superpotenza e varie grandi potenze. Sarebbe un’illusione, però, pensare che ci potrà essere un facile ritorno alla leadership americana e alla collaborazione tra alleati degli Stati Uniti caratteristica degli anni della Guerra fredda. Non esiste una singola minaccia unificante come quella rappresentata un tempo dall’Unione sovietica, capace di unire l’America e le altre nazioni in un’alleanza permanente. Oggi la situazione del mondo è più simile a quella del Diciannovesimo secolo che a quella della seconda metà del Ventesimo. Chi pensa che questa sia una buona notizia dovrebbe ricordare che l’ordine affermatosi nel Diciannovesimo secolo non è finito altrettanto bene di come è finito quello degli anni della Guerra fredda. Per evitare questa sorte, gli Stati Uniti e le altre nazioni democratiche dovranno sviluppare una visione più illuminata e generosa dei propri interessi. Gli Stati Uniti, nella loro posizione di democrazia più forte del pianeta, non dovrebbero opporsi alla costituzione di un mondo di sovranità nazionali ridotte e congiunte. Non hanno nulla di cui temere e tutto da guadagnare da un mondo di leggi e norme fondate sugli ideali liberali con lo scopo preciso di assicurare la loro protezione. Allo stesso tempo, le democrazie dell’Asia e dell’Europa devono riconoscere che il progresso verso un ordine liberale dipende non soltanto dalla legge e dalla volontà popolare ma anche dalla presenza di nazioni potenti in grado di sostenerlo e difenderlo. In un mondo caratterizzato dall’egoismo dei propri interessi, non tutte le nazioni possono essere in grado di assumere questo genere di visione illuminata. Ma se c’è davvero qualche speranza, questa sta in una rinnovata comprensione dell’importanza dei valori. Gli Stati Uniti e le altre nazioni democratiche sono unite dalla medesima aspirazione a un ordine internazionale liberale, fondato sui principi democratici e tenuto insieme, per quanto imperfettamente, da norme stabilite tra tutte le nazioni. Questo ordine è attualmente minacciato dall’ascesa delle grandi potenze autocratiche e dalla lotta antidemocratica scatenata dal terrorismo islamico. Se il bisogno che le democrazie hanno l’una dell’altra è meno evidente di un tempo, il bisogno che queste, Stati Uniti compresi, hanno di “guardare con maggiore lungimiranza al futuro” è invece molto maggiore.

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