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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
29.08.2008 Bilanci dell'amministrazione Bush e della liberazione dell'Iraq
c'è chi si affida ai luoghi comuni e chi ai fatti

Testata: Corriere della Sera
Data: 29 agosto 2008
Pagina: 41
Autore: Ennio Caretto - Christopher Hitchens
Titolo: «Il silenzio che circonda George W. - Iraq, le buone notizie che nessun vuol sentire»
Il CORRIERE della SERA del 29 agosto 2008 pubblica un articolo di Ennio Caretto che traccia un bilancio dell'amministrazione Bush.
Partendo da presupposti più che discutibili. Come quello secondo cui nel 2000  Bush ereditò "un Medio oriente non contrario alla pace". Davvero ? Caretto non ricorda il no di Arafat al vertice Camp David, seguito dalla violenza del terrorismo suicida ? Pensa che Saddam Hussein fosse favorevole alla pace ?
Ecco il testo dell'articolo:


«Anatra zoppa», o leader dimezzato: tradizionalmente, così sono definiti i presidenti americani alla fine del loro mandato, quando il mondo ne aspetta i successori, pronto a voltare pagina. Ma più che un'anatra zoppa, oggi George W. Bush rischia di apparire un leader irrilevante, sebbene non lo sia.
L'uomo che fino a pochi mesi fa era ritenuto il più potente della terra sembra un disperso, quasi un grande innominato.
E non solo perché Barack Obama, già definito dal New York Times «il facente funzione di presidente americano», gli abbia sottratto la ribalta, ma anche perché non si mostra più capace di plasmare gli eventi come un tempo. All'improvviso, da protagonista assoluto, Bush dà l'impressione di essere diventato un semplice comprimario, se non, a volte, uno spettatore.
A danneggiarne l'immagine e a ridurne il potere è stata una serie di rovesci, dalla crisi finanziaria interna alla presa di distanza dell'Iraq dalla sua amministrazione, dalla caduta di Musharraf in Pakistan all'invasione russa della Georgia, dall'incuranza dell'Iran di fronte alle sue minacce all'impasse tra Israele e la Palestina. Su tutti questi fronti, Bush si è trovato al traino altrui: di Bernanke, il governatore della Riserva federale, il salvatore di Wall Street; di Obama, l'architetto del graduale disimpegno da Bagdad; del nuovo governo pakistano; del leader francese Sarkozy, il mediatore con il Cremlino; dell'Unione europea, la negoziatrice con Teheran; in Medio oriente, oltre che di Ankara e de Il Cairo, persino di Damasco, che ha aperto un dialogo diretto con Gerusalemme.
Che il ruolo di Bush sia diminuito lo ha confermato la Georgia. Così ferrato nella guerra preventiva, W. non ha saputo promuovere la pace preventiva: il presidente georgiano Saakashvili ne ha ignorato il monito a non attaccare l'Ossezia del sud, e il segretario di stato «Condi» Rice non ha interrotto le vacanze se non all'arrivo dei carri armati russi. Charles Wilson, l'ex deputato che alimentò la rivolta afgana contro l'Urss, lo ha accusato di avere ripetuto a Tbilisi gli errori commessi a Kabul: di non avere promosso e finanziato nel dopo guerra fredda le riforme sociali ed economiche che avrebbero potuto pacificare la regione. Non basta la hard power, il potere militare, ha rilevato, a garantire la sicurezza internazionale, occorre anche la soft power,
il potere civile.
L'interrogativo posto dal declino di Bush è se sia l'effetto dei suoi insuccessi personali oltre che dell'imminente scambio di consegne con Obama — o con McCain — oppure se segnali un'incipiente perdita d'influenza dell'America. Secondo Robert Kagan, consigliere di politica estera di McCain, è il primo caso: «Bush ha basato la politica estera sulla lotta al terrorismo, dividendo gli alleati e alienando i non allineati».
Strobe Talbott, l'ex sottosegretario di Stato di Clinton, è d'accordo: «Nessuna Presidenza aveva accusato una così scarsa credibilità al suo crepuscolo». Talbott rinfaccia a Bush anche altre colpe, di non avere risposto, ad esempio, alle sfide energetiche e ambientali del 2000: «Ci lascia una eredità molto pesante».
Sottovalutare W. sarebbe un grave sbaglio: il potere di un presidente, sia pure in disgrazia, resta enorme, soprattutto se si tratta di un profeta dell'unilateralismo. Ma il silenzio che oggi lo circonda potrebbe anticipare il giudizio della storia. Nel 2000, Bush ereditò un'economia prospera, un Medio oriente non contrario alla pace, una Russia disposta alla collaborazione con la Nato, un mondo abbastanza stabile. E' vero che la strage delle Torri gemelle cambiò molte cose se non tutte, e che vi sono vari altri responsabili delle tensioni odierne, come Putin. Ma è altrettanto vero che, dopo la ferma e giusta reazione iniziale, Bush si consegnò ostaggio all'ideologia. Per questo motivo gran parte dell'America oggi lo ignora o indica di volerlo dimenticare.

Di contro al bilancio negativo di Caretto, l'analisi di Christopher Hitchens sull'Iraq, fondata sui fatti e non sui luoghi comuni:

Uno di questi giorni prometto di pubblicare la mia intera raccolta di notizie a rovescio sull'Iraq, dove il vero senso della storia è il contrario di quello che si intendeva esprimere. (Finora il primo premio va alla notizia più deprimente di tutte: oggi i becchini in Iraq sono minacciati dalla disoccupazione. Le loro condizioni di vita, da sempre precarie, sono a serio rischio per il declino nel tasso di omicidi. Non ci credete? Aspettate a leggere la mia antologia.) In attesa, vi intratterrò con l'incredibile notizia del surplus di bilancio iracheno e del modo in cui è stata riferita.
Grazie soprattutto all'aumento del prezzo del petrolio, alla scoperta di nuovi giacimenti dalla caduta di Saddam Hussein e all'incremento nelle esportazioni tramite gli oleodotti verso la Turchia, questa eccedenza di bilancio potrebbe ammontare a qualcosa come 79 miliardi di dollari entro fine anno. Una buona parte del tesoretto è al sicuro in una banca di New York. Direi che questa è una buona notizia, anche se capisco l'irritazione del senatore Carl Levin, e di altri che si occupano di vigilare sull'economia e le finanze irachene, i quali lamentano che tutta quella ricchezza accantonata è un vero scandalo, quando si pensa alle ingentissime spese sostenute dal governo americano per la ricostruzione della Mesopotamia.
Certo, dovrebbe essere l'Iraq stesso a finanziare la sua ricostruzione. Ma prima di concordare tutti su questa ovvia proposta, forse dovremmo fermarci un attimo e chiedere scusa a Paul Wolfowitz. Delle tante calunnie scagliate contro questo sostenitore della liberazione dell'Iraq, probabilmente nessuna è stata tanto sbandierata quanto le sue dichiarazioni davanti al Congresso, quando affermava che la rinascita dell'Iraq, dopo decenni di dittatura e di guerre, sarebbe stata autofinanziata. Oggi gli oppositori dell'intervento strillano che l'Iraq dovrebbe aprire quel portafoglio rigonfio seduta stante.
Ciò avverrà, indubbiamente, ora che le vaste risorse del-l'Iraq sono tornate nelle mani del suo popolo e non più «privatizzate » come proprietà personale di una famiglia criminale e psicopatica. Il senatore Levin, che con il senatore John Warner ha richiesto il rapporto originale dalla Ragioneria di Stato per le finanze irachene, era il democratico di spicco nella sottocommissione del Senato che investigò lo scandalo
oil for food (petrolio in cambio di cibo). Levin sa benissimo che cosa accadeva alla ricchezza petrolifera irachena, come veniva prostituita tramite un programma delle Nazioni Unite per essere poi convogliata verso nobili cause, quali il finanziamento degli attentatori suicidi a Gaza e dei politici filo Saddam, e «contro la guerra», a Londra, Parigi e Mosca. Mentre questo arricchimento criminale delle élite estere e irachene andava avanti, la popolazione dell'Iraq viveva nell'immondizia e beveva acqua contaminata come conseguenza delle sanzioni internazionali inflitte dalle Nazioni Unite.
Dovremmo essere ben lieti che non sia più il regime sadico e aggressivo di Saddam Hussein a intascare l'aumento del prezzo del petrolio, per spartirsi i guadagni con terroristi, ladri e demagoghi annotati nel suo libro paga segreto. Dovremmo essere lieti che la sua gestione privata delle forze armate irachene, come il monopolio del partito Baath, siano stati per sempre aboliti. Le risorse irachene non sono più a disposizione di un'oligarchia parassitica e guerrafondaia. Oggi l'esercito iracheno, nuovamente addestrato ed equipaggiato, viene spiegato non in guerre di invasione contro i paesi vicini o per il genocidio dei suoi concittadini, bensì in campagne per contrastare Al Qaeda e le armate Mahdi. E questo rappresenta un netto miglioramento.
Non è per spirito vendicativo che vorrei ricordarvi come, meno di un anno fa, tutta la scaltra fazione di opinione liberale era convinta che la dissoluzione del Baathismo e del militarismo fosse stato un grave errore, che l'Iraq stesso fosse un pozzo senza fondo di dollari sprecati e di morti insensate, e che l'unica opzione restasse quella di ritirarsi il più in fretta possibile per lasciar divampare l'inevitabile guerra civile.
Se si fosse dato credito anche a una sola di queste tremende sciocchezze, non sarebbero stati nemmeno i sicari di Saddam a mettere le mani su quella fantastica ricchezza in un paese altamente strategico come l'Iraq, quanto piuttosto le sanguinarie milizie che giurano fedeltà al Wahabismo più fanatico da una parte, o allo Sciismo più fondamentalista dall'altra, strumenti entrambi delle forze tiranniche che governano i paesi confinanti.
Prima del 2003, esisteva forse una base socioeconomica per giustificare la dittatura in Iraq, in quanto l'assenza di petrolio in terre sunnite forniva il pretesto alla cricca criminale di Tikrit per giustificare il dominio delle regioni curde e sciite, le quali possedevano effettivamente lucrosi giacimenti. Oggi, la scoperta di nuove riserve petrolifere e le nuove leggi varate per la decentralizzazione regionale e provinciale assicurano invece la base socioeconomica del federalismo. Anche qui, siamo davanti a un notevole progresso. Questo elemento della struttura, in gergo marxista, non basta tuttavia a garantire la sovrastruttura, come l'immensa nuova ricchezza oggi nei forzieri iracheni non rappresenta automaticamente una promessa di prosperità per tutti. Ma ci si può seriamente lamentare che tali questioni vengano affrontate nell'unico contesto possibile, e cioè nell'era post-Saddam, ovvero nella sola condizione necessaria e indispensabile per tali sviluppi?
Allora sì, è vero, le grandi operazioni belliche sembrano giunte al termine e ci si può permettere di dichiarare «missione compiuta». Se sussistono ancora nostalgie irachene per il vecchio partito e il vecchio esercito, bisogna dire che sono molto ben camuffate. L'Iraq non gioca più a nascondino con le armi di distruzione di massa né ospita sul suo suolo organizzazioni terroristiche internazionali. Non è più soggetto a sanzioni che penalizzano la popolazione e arricchiscono la classe politica. Le minoranze etniche e religiose non sono più trattate come sottospecie umana. Il dibattito interno più acceso di questi ultimi giorni riguarda la data delle prossime elezioni provinciali e nazionali. Certamente, oggi dovrebbero essere chiamati a rispondere e a giustificarsi non coloro che hanno caldeggiato questa emancipazione, bensì quanti l'hanno ostacolata a ogni passo.

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