Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
Ad Auschwitz si deve commemorare la Shoah ? Sergio Luzzatto risponderebbe di no ?
Testata: Corriere della Sera Data: 26 agosto 2008 Pagina: 37 Autore: Sergio Luzzatto Titolo: «Auschwitz, memoria di tutti»
Sergio Luzzatto, sul CORRIERE della SERA del 26 agosto 2008, prendendo spunto da alcuni testi inediti di Primo Levi sulla nascita del padiglione italiano ad Auschwitz, torna sul dibattito, sviluppatosi in Italia nella scorsa primavera, sull'opportunità di un nuovo allestimento. "Chi e che cosa si commemora ad Auschwitz? La tragedia della Shoah, cioè la risoluzione nazista di sterminare dal primo all'ultimo gli ebrei d'Europa? Oppure la tragedia di tutte le vittime del nazifascismo, ebrei o cristiani o atei, oppositori politici o zingari o omosessuali o disabili? Sono queste, in fondo, le implicazioni del dibattito ", scrive Luzzatto. La sua risposta, che a suo parere sarebbe anche quella di Levi, è evidentemente che l'opzione giusta sia la seconda. La contrappoiszione però è artificiale. Ricordare tutte le vittime del nazismo, non deve significa dimenticare o confondere in un indistinto elenco di vittime lo specifico tentativo di cancellare il popolo ebraico dalla faccia della terra. "Contestualizzare" storicamente la Shoah non può significare, semplicemente, collocarla all'interno della storia del nazifascismo e dei suoi immediati antefatti storici. Lo sterminio degli ebrei ha radici più profonde nella storia d'Europa, non ancora troncate. Fu motivato dall'antisemitismo, da un odio plurisecolare non ancora estinto. Dimenticarlo significa disarmarsi di fronte al suo ritorno.
Ecco il testo dell'articolo:
Chi e che cosa si commemora ad Auschwitz? La tragedia della Shoah, cioè la risoluzione nazista di sterminare dal primo all'ultimo gli ebrei d'Europa? Oppure la tragedia di tutte le vittime del nazifascismo, ebrei o cristiani o atei, oppositori politici o zingari o omosessuali o disabili? Sono queste, in fondo, le implicazioni del dibattito che si è acceso in Italia nella scorsa primavera, intorno a un problema apparentemente circoscritto: l'opportunità o meno di intervenire sul padiglione italiano del museo di Auschwitz — inaugurato nel 1980 — con un nuovo allestimento, che sottolinei le proporzioni inaudite della catastrofe ebraica anziché privilegiare il dramma dei deportati politici. A qualche mese di distanza, il problema specifico sembra avere perduto d'urgenza. L'Associazione nazionale degli ex deportati (Aned), proprietaria del Memorial di Auschwitz, ha concordato con la Scuola di restauro dell'Accademia di Brera un intervento di recupero che salvaguardi l'installazione originaria: opera d'arte concepita e realizzata da nomi fra i più significativi della cultura italiana del Novecento. Nel frattempo il governo Prodi è caduto, e non è sicuro che il governo Berlusconi voglia ereditarne l'intenzione di sottoporre il padiglione a un drastico restyling. Tra gli enti culturali che si sono mobilitati per garantire una conservazione integrale del Memorial, figura l'Istituto bergamasco per la storia della Resistenza e dell'età contemporanea (Isrec). E appunto nell'ultimo numero della rivista dell'Isrec, Studi e ricerche di storia contemporanea, si possono leggere materiali inediti di notevole spessore. Frugando negli archivi dell'Aned, una giovane ricercatrice — Elisabetta Ruffini — ha ritrovato infatti la documentazione relativa alle circostanze di nascita del padiglione, durante la seconda metà degli anni Settanta. Carte da cui emerge il pieno coinvolgimento, nell'iniziativa del Memorial, dell'ebraismo organizzato: la Comunità israelitica di Milano, quella di Roma, l'Unione delle comunità ebraiche italiane. E carte da cui emerge, soprattutto, il ruolo fondamentale di Primo Levi nel compimento del progetto stesso. La decisione di allestire ad Auschwitz un padiglione italiano era stata presa dall'Aned nel 1972, ma non si fece concreta prima del '75. Fu allora che lo studio architettonico di Lodovico Belgiojoso, il celebre Bbpr (Banfi, Belgiojoso, Peressutti, Rogers), mise nero su bianco l'idea portante del futuro memoriale: una spirale ad elica all'interno della quale avrebbero camminato i visitatori, lungo una pavimentazione composta da traversine ferroviarie accostate, con un nastro dipinto a illustrare le vicende storiche del nazifascismo, della Resistenza e della deportazione. Tre anni dopo, il progetto entrò nella sua fase esecutiva. Il 6 settembre 1978, i vertici dell'Aned chiesero a Primo Levi se volesse «dare corpo e anima al Museo», elaborando «didascalie appropriate». Levi accettò l'invito a stretto giro di posta, l'11 settembre: «con molto piacere, sperando di essere pari al compito». Redatto dal chimico-scrittore torinese nelle settimane immediatamente successive, e approvato tale e quale (con la correzione di un unico aggettivo) dal comitato direttivo dell'Aned, il testo destinato al Memorial venne trascritto una prima volta nella brochure di accompagnamento per l'inaugurazione dell'opera, ed è stato poi ripreso nell'edizione Einaudi delle Opere di Levi. Due pagine in tutto, che vanno rilette — trent'anni dopo — con un'attenzione tanto maggiore, in quanto la recente polemica sul Memorial ha rischiato di contrapporre gli ambienti dell'Aned e quelli delle Comunità israelitiche. Primo Levi portava sulle spalle una duplice identità: era, per così dire, doppiamente reduce da Auschwitz. Era reduce come ebreo, «salvato» fra i pochi anziché «sommerso» fra i tanti. Ma era reduce anche come partigiano, catturato con le armi in pugno nella valle d'Aosta dell'inverno '43. Forse per questo, perché sentiva di avere imboccato la strada per Auschwitz da resistente altrettanto che da israelita, Levi volle conferire al testo per il Memorial un'intonazione che suonasse anzitutto politica. Lo fece nell'incipit, enfatizzando il legame cogente, necessario, tra Lager e fascismo: «La storia della Deportazione e dei campi di sterminio, la storia di questo luogo non può essere separata dalla storia delle tirannidi fasciste in Europa». E lo fece poco più sotto, additando nel regime di Mussolini «il primo esperimento europeo di soffocazione del movimento operaio e di sabotaggio della democrazia». Alla fine degli anni Settanta, in Italia come altrove in Occidente stava per esplodere il «fenomeno» Shoah: nella sensibilità collettiva, lo sterminio degli ebrei tendeva a rimpiazzare la deportazione degli oppositori politici come quintessenza dell'universo concentrazionario. Ma proprio allora, Levi scelse di adottare (secondo l'acuta osservazione di Elisabetta Ruffini) una prospettiva inattuale. Scrivendo su Auschwitz e per Auschwitz, tenne a esprimersi da antifascista quasi più che da ebreo. Rese omaggio ai «martiri operai di Torino del 1923», ai carcerati, ai confinati, agli esuli del Ventennio. Salutò i «fratelli di tutte le fedi politiche che sono morti per resistere al fascismo restaurato dall'invasore nazionalsocialista». Inutile negarlo: è un testo datato quello che Levi scrisse per il Memorial nell'autunno del '78. Tuttavia, precisamente l'inattualità di questo testo merita di essere raccolta dal lettore di oggi. Perché sempre più spesso la riflessione intorno alla Shoah viene sganciata da ogni contestualizzazione storica e politica, mentre le parole di Levi restituiscono la tragedia degli ebrei d'Europa alla sua dimensione postrema, alla sua realtà ultima: qualcosa che non riguarda soltanto gli ebrei stessi, come vittime, e i tedeschi, come carnefici, ma riguarda gli italiani, gli europei, tutti gli esseri umani che ebbero a patire dal mostro hitleriano. E riguarda gli italiani, gli europei, tutti gli esseri umani che alle imprese di quel mostro scelsero di collaborare. Nelle due paginette di Levi, la cosa più importante è un pronome personale: «noi». Un «noi» che ritorna più volte, e che sa essere — secondo i casi — scrupolosamente distintivo o meravigliosamente inclusivo. Sa essere distintivo: «noi, gli italiani che siamo morti qui»; «alcuni fra noi erano partigiani e combattenti politici»; «la maggior parte fra noi erano ebrei»; «c'erano bambini fra noi, molti, e c'erano vecchi alle soglie della morte»; «noi innocenti siamo stati uccisi». Sa essere inclusivo: «noi, figli di cristiani ed ebrei (ma non amiamo queste distinzioni)».
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