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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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David Flusser Jesus 25/08/2008

Jesus                                                         David Flusser

 

Morcelliana                                      Euro 15

 

 

 

C’è metodo e metodo. E poi c’è chi, come David Flusser, uno dei più grandi studiosi israeliani del Novecento, di regole proprio non voleva sentir parlare: “Il metodo – osservava con ironia – non è che la ripetizione coerente di certi errori logici”.

 

Nato a Vienna nel 1917, e formatosi all’università di Praga, Flusser era riuscito a scappare in tempo dall’Europa e a rifugiarsi nella Palestina britannica nel 1939. A Gerusalemme aveva studiato con Scholem, e dal grande berlinese gli era venuta un’erudizione a un tempo sterminata e bisbetica. La boutade sul metodo, in fondo, non era che la civetteria di un filologo così sicuro del fatto suo da potersi permettere di trasgredire i confini tra generi scientifici. Tanto più che Flusser, professore all’Università ebraica di Gerusalemme, occupava una posizione del tutto particolare nel panorama accademico israeliano: era infatti lui – ebreo ashkenazita – la massima autorità per la storia del cristianesimo.

 

Il suo Jesus, pubblicato per la prima volta nel 1968 apparso poi in una serie innumerevole di traduzioni e ristampe, fino a questa, recentissima, di Morcelliana, è un classico di storiografia. Per decenni, gli studiosi hanno dovuto fare i conti con questa ricostruzione tagliente, appassionata e per molti versi rivoluzionaria. Una cosa va detta subito, il Gesù di cui parla Flusser non è il messia cristiano, ma un rabbi, forse il più influente, e senz’altro il più tormentato maestro dell’età greco-romana. Ce n’è abbastanza per stupirsi e per appassionarsi alla lettura.

 

I quarant’anni donano al libro di Flusser, poiché ne accentuano i tratti caratteristici di provocazione, lanciata verso due campi: quello ebraico, talvolta in imbarazzo nei confronti del predicatore venuto da Nazareth, e quello cristiano, non sempre consapevole della profondissima ebraicità del proprio messia.

 

Come si sarà capito, Flusser non amava i mezzi termini. La sua tesi perentoria, che accoglie il lettore già alle prime pagine, è che i Vangeli sinottici “rappresentano non tanto un redentore dell’umanità, quanto un taumaturgo e predicatore ebreo”, uno tzaddiq, insomma, che a noi pare sorprendentemente simile ai saggi itineranti e insubordinati dei racconti “chasidici” dell’Europa orientale. Certo il paragone è anacronistico, ma qualche corto circuito interpretativo è inevitabile se si vuole accettare la sfida lanciata da Flusser.

 

Si prenda, per esempio, la disputa coi dottori del tempio. Ecco l’episodio è spiegato come il tour de force di un erudito precocissimo, quasi che Gesù fosse un giovane talmudista. Secondo Flusser, infatti, Gesù “aveva familiarità sia con le Scritture sacre sia con l’insegnamento orale e sapeva servirsene. La sua formazione ebraica era incomparabilmente più alta di quella di Paolo”. Va da sé che le simpatie dell’umorale Flusser vanno tutte al giovane maestro di Nazareth, mentre per l’ellenizzato Paolo lo storico israeliano non nasconde una punta di antipatia.

 

Da quando l’opera fu scritta, il nostro quadro interpretativo è cambiato di molto. Se si vuole trarre diletto dal libro, bisogna leggerlo soprattutto come una rivendicazione di appartenenza, con cui l’ebreo Flusser disegna un profilo solo ed esclusivamente ebraico di Gesù. Sebbene sia sostenuta da un puntuale apparato documentario, la tesi di Flusser deriva innanzitutto da una spinta psicologica, dall’emozione per aver riconquistato quel capitolo fondamentale di storia della spiritualità ebraica, che si svolse tra le rive del lago di Tiberiade e il Golgota. Che lo si accetti o meno, il Gesù di Flusser è un libro che riesce ancora a farci pensare.

 

 

 

 

 

Giulio Busi

 

Il Sole 24 Ore

 


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