Pellegrinaggio nostalgico al mausoleo di Arafat Fabio Scuto vuole far rivivere un falso mito
Testata: La Repubblica Data: 25 agosto 2008 Pagina: 1 Autore: Fabio Scuto Titolo: «Arafat Nelle stanze segrete del vecchio leader»
Su La REPUBBLICA del 25 agosto2008, Fabio Scuto, inviato a Ramallah, prova a riesumare la mitologia di Yasser Arafat, corrotto capo terrorista che nei territori palestinesi, come lo stesso Scuto deve ricordare, sembra essere destinato all'oblio( "dal giorno della sua morte in nessun discorso pubblico, in nessun colloquio «al Kittiar» (il vecchio, come i collaboratori lo chiamavano in sua assenza) è più stato citato"). L'articolo contiene tutti i luoghi comuni della leggenda politicamente corretta con la quale si è tentato di di dare al raìs palestinese l'aura del martirio: l'assedio israeliano, le "due stanze senza luce e senz´acqua", la morte per una malattia "misteriosa", fino all'incredibile distorsione della verità di certi dettagli patetici "Sul tavolo ampio di legno chiaro ci sono le sue ultime carte, un appello alla Lega Araba per un intervento immediato, la richiesta di un gruppo di studenti bisognoso di denaro per completare gli studi all´estero. Con la sua grafia tremolante aveva scritto a penna sullo stesso foglio: «Aiutiamoli», e la sua firma subito sotto. A destra del tavoloun telefono e un fax, le sue armi principali, con le quali tempestava potenti e regnanti ai quattro angoli della Terra perché non lascessero soli i palestinesi e la loro causa". Arafat presentato come un buon padre della patria sollecito del futuro degli studenti indigenti, le cui armi principali sono un telefono e un fax !
Nell'articolo non si fa cenno alle vittime di Arafat. Nè ai civili israeliani massacrati, né ai palestinesi spinti dalla propaganda a suicidarsi per uccidere. Non si fa cenno alla sua carriera di terrorista. Nè al prezzo che israeliani e palestinesi hanno pagato per la sciagurata scelta politica dei suoi ultimi anni: quella di rifiutare la nascita di uno Stato palestinese e di riprendere la strada della violenza, inseguendo il suo obiettivo di sempre, ovvero la distruzione di Israele. Nessun cenno neppure alle squallide vicende finanziare che hanno accompagnato la sua morte, con la vedova e l'Autorità palestinese che si contendevano il malloppo dei suoi conti all'estero.
Un ricordo menzognero del raìs palestinese, dunque, che, per l'appunto, deve tutto ai miti politici terzomondisti che ne hanno accompagnato la parabola, e nulla all'onesto racconto della storia.
Ecco il testo completo:
dal nostro inviato ramallah La Muqata è un complesso bruciato dal sole in questa estate mediorientale. Importanti lavori di ristrutturazione hanno cambiato il volto di queste costruzioni che durante il mandato britannico in Palestina ospitavano un comando delle truppe inglesi. Oggi non è più il fortino semi-distrutto come quando c´era Yasser Arafat. Solo una piccola parte, al secondo piano dell´edificio principale è rimasto così com´era. Sono le due stanze dove Abu Ammar ha vissuto i suoi ultimi mesi di vita, assediato dai carri armati israeliani che si erano appostati dentro il grande piazzale con i cannoncini puntati proprio contro il secondo piano. Da queste due stanze senza luce e senz´acqua, che per la prima volta sono state aperte a un giornalista, Arafat ha lanciato i suoi ultimi appelli al mondo arabo e all´Occidente perché intervenissero per sbloccare l´assedio. Si dice che fu la Casa Bianca a fermare il fuoco dei carri armati mandati da Ariel Sharon, a intervenire perché il presidente dell´Anp uscisse indenne. Arafat era gravemente malato, gli israeliani sapevano che era solo questione di tempo. Morirà a Parigi in un ospedale militare dopo sei mesi di una malattia che nessun medico è mai riuscito a diagnosticare, una morte avvolta ancora da molti dubbi e misteri. Quel che resta di Arafat è al secondo piano alla fine di uno stretto corridoio, separato dal resto del piano e dagli uffici del presidente Abu Mazen da una porta blindata tagliafuoco. Arafat non aveva una camera dove dormire, si accontentava di un letto da campo nello studio. In una torrida giornata di agosto tutto, anche l´aria, sembra fermo a quattro anni fa: dopo la sua morte l´11 novembre del 2004, questo corridoio venne chiuso, sigillato da questa porta spessa un palmo. Sul tavolo ampio di legno chiaro ci sono le sue ultime carte, un appello alla Lega Araba per un intervento immediato, la richiesta di un gruppo di studenti bisognoso di denaro per completare gli studi all´estero. Con la sua grafia tremolante aveva scritto a penna sullo stesso foglio: «Aiutiamoli», e la sua firma subito sotto. A destra del tavolo un telefono e un fax, le sue armi principali, con le quali tempestava potenti e regnanti ai quattro angoli della Terra perché non lascessero soli i palestinesi e la loro causa. A fianco c´è una sua foto di fine anni Novanta sorridente. Ha in braccio Zahwa, la figlia avuta dal matrimonio senza amore con Suha Tawil nel 1995. Anche la bambina sorride e gli tocca la barba rada, gli occhi del vecchio combattente sono lucidi di gioia. Alle sue spalle una gigantografia della Spianata delle Moschee di Gerusalemme. La libreria è chiusa a chiave, ma dietro la vetrina si intravedono volumi di letteratura araba classica e l´edizione francese del poema che Mahmoud Darwish, il più grande scrittore palestinese, dedicò al suo paese: «Palestine, mon pays». Di fronte allo studio c´è una spoglia saletta per le riunioni, quella dove l´abbiamo visto a lume di candela chiedere aiuto a tutti per fermare l´attacco contro la Muqata. Due stanze che rappresentano un tuffo nel passato che non c´è più, la porta blindata che chiude questo corridoio non viene mai aperta. Appena fuori «l´ala Arafat» i pavimenti di marmo sono lucidi, ronzano i condizionatori d´aria, i dipendenti in giacca e cravatta escono dalle stanze dei consiglieri del presidente con fasci di carte. Tutti sono vestiti molto formalmente, perfettamente rasati. Nessuno porta più la divisa, non si vede nemmeno l´ombra di un´arma né di una keffiah. Ai tempi di Arafat, del presidente- feddayn sempre in divisa verde oliva, tutti avevano una rivoltella infilata nei pantaloni, anche in ufficio. Molti arrivavano vestiti con la mimetica e posavano il kalashnikov dietro alla porta, come succede da noi con l´ombrello quando piove. L´informalità era l´unica regola. Oggi l´atmosfera è diversa. Abu Mazen detesta le armi e non ne vuole vedere in giro, ha anche chiesto alla sua scorta di evitare di metterle in vista. La stanza di Arafat era sempre piena di gente, consiglieri, amici, conoscenti, ospiti stranieri. Ognuno che diceva la sua. Abu Mazen - schivo e timido tanto quanto Arafat era espansivo e teatrale - detesta l´assemblearismo, non vuole gente nel suo studio, i partecipanti alle riunioni si contano sulle dita di una mano. Uscendo dall´edificio non può non colpire il «mausoleo» di Arafat su una collinetta artificiale ricavata nello spazio che era prima il parcheggio per le auto degli ospiti. Sepolte in fretta e furia sotto il bitume il 12 novembre 2004 le spoglie di Abu Ammar non potevano restare lì a lungo. Oggi sono ospitate in un cubo di marmo di Hebron e vetro. Circondata da aiuole piene di fiori, la tomba è vegliata da due soldati dell´Anp in alta uniforme. Un tributo al primo presidente palestinese, che compare ancora in molte foto negli uffici come nelle case private dei palestinesi. Ma dal giorno della sua morte in nessun discorso pubblico, in nessun colloquio «al Kittiar» (il vecchio, come i collaboratori lo chiamavano in sua assenza) è più stato citato. La mitraglietta Skorpion, da cui non si separò mai, nemmeno quando entrò al Parlamento italiano a Roma, è finita in un deposito di vecchia ferraglia per essere fusa e l´acciaio riutilizzato per un altro scopo. La tomba e l´annessa moschea sembrano davvero l´ultimo omaggio, l´idea di un museo è stata rapidamente accantonata. Del suo carteggio, lettere, appunti, ricordi, nessuno sa più nulla. Il passato non si dimentica ma futuro dei palestinesi sta andando a grandi passi da un´altra parte.