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Lettere dall’esilio. Carteggio (1933-1973) G. Scholem – L. Strauss
a cura di Carlo Altini traduzione di Silvia Battelli Giuntina Euro 14 Sono tante, le vittime della lontananza: rifugiati, profughi, espatriati, emigrati. Esuli. Tutte condividono una distanza incolmabile, “per lo più imposta con la forza, tra il sé e il posto in cui è nato, tra il sé e la sua casa nel mondo”. Ciascuno di questi termini che raccontano il dolore di partire per non tornare, ha però una sua connotazione specifica, vuoi sociale, vuoi politica. L’esiliato ha dalla sua il carattere della solitudine. E un “non so che di spirituale”, riposto nella capacità che egli finisce per conquistare, di agire come se fosse a casa in qualunque luogo gli capiti di approdare. L’esiliato acquisisce, volente o nolente, una soggettività “scrupolosa”, in bilico fra due sentimenti apparentemente opposti. Uno è proprio la percezione del mondo come un luogo domestico, dove ci si può sentire come se si fosse a casa, ovunque. Per contro, l’esule è anche intransigente, enfatico, “sopra le righe” nel suo slancio teso a “costringere il mondo ad accettare la propria visione del mondo – resa ancor più inaccettabile dal fatto che l’esule è in realtà il primo a non averla accettata”. Così Edward Said, l’intellettuale palestinese nato nel 1935 e scomparso cinque anni fa, vissuto negli Stati Uniti – insegnò alla Columbia, a Harvard, a Yale e alla Johns Hopkins – declina la condizione dell’esilio in un saggio della raccolta Nel segno dell’esilio…. Dall’altra parte del fronte, le parole che Said usa per descrivere l’esilio sembrano fatte apposta per delineare la condizione di Gershom Scholem e Leo Strauss, così come si delinea nei quarant’anni della loro corrispondenza (1933-1973), ora pubblicata in italiano da La Giuntina per la cura di Carlo Altini. Il primo è a Gerusalemme, dove è giunto lasciando la sua Germania. Il secondo è a Parigi, Londra, Chicago e altrove: entrambi sono sospinti dall’esilio. Entrambi, seppure da grandi distanze – Scholem è credente, Strauss ateo – credono nell’ebraismo come forza vivente (a dispetto delle terribili circostanze storiche) e nella dignità profonda della tradizione a cui appartengono. Si scrivono di tante cose, a partire da quando Strauss vorrebbe un incarico accademico a Gerusalemme (ma per casi burocratici non l’avrà) o in “qualsiasi altra parte del mondo” purchè lontano dall’Europa. I due intellettuali parlano anche di filosofia medievale, di Spinoza, considerato dagli ebrei tedeschi il simbolo dell’emancipazione. Tanto per Scholem quanto per Strauss – e per tutto l’ebraismo europeo -, Auschwitz avrebbe ben presto tradito quell’illusione. Da un capo all’altro della bufera, queste due anime (una rimasta esule, l’altra finalmente radicata nella propria terra) continuarono a parlarsi, a ragionare e provare ad interpretare il mondo, malgrado tutto ciò di cui è stato capace. Elena Loewenthal Tuttolibri – La Stampa |
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