Israele è sopravvissuta, per i palestinesi è un "lutto" un reportage che non aiuta a capire
Testata: Avvenire Data: 21 agosto 2008 Pagina: 25 Autore: Laura Bosio Titolo: «Dentro e intorno a Gerusalemme»
AVVENIRE del 20 agosto 2008 pubblica un reportage di Laura Bosio da Gerusalemme e Hebron. Vi si legge
un agglomerato di edifici bassi e squadrati, costruiti con la pietra chiara che muta al mutare della luce. Mentre risaliamo la strada, compaiono i primi neon con la scritta '40' appoggiata a sbuffi blu. Festeggiano i quarant’anni dalla guerra del 1967, a loro modo aggressivi. Ripetono ogni cinquanta metri la vittoria degli israeliani (come se nelle guerre - la storia non lo insegna mai - ci fossero davvero dei vincitori) ben sapendo che per i palestinesi e per gli arabi quel giorno è stato un giorno di lutto.
Un giorno di lutto, per non essere riusciti a cancellare Israele dalla faccia della terra.
E ancora:
Hebron è grande (200.000 abitanti) ma, nonostante la pace separata che la riguarda (difficile capire bene in cosa consista), continua a essere in stato d’assedio per la presenza di una minoranza di coloni che si è insediata in ogni interstizio e che nemmeno i militari sono riusciti, in tempi recenti, con un contrordine altrettanto violento, a sradicare del tutto.
Nessun cenno ai pogrom che, prima della fondazione di Israele, cancellarono la comunità ebraica di Hebron. Sarebbe servito a capire che l'insediamento dei coloni non è certo l'origine dei conflitti e delle tensioni della città.
Ecco il testo completo:
Malpensa, 21 agosto, un anno fa. Ci imbarcano sull’aereo sotto la pioggia. I miei compagni di viaggio sono in gran parte israeliani, i tratti somatici sono inconfondibili come i loro copricapi: una mescolanza di tipi umani ma accomunata, i vecchi come i bambini, da occhi grandi e scuri con un’ombra di paura mai scomparsa. Attraversate le nuvole, viaggiamo in un mare assolato d’azzurro da cui ogni tanto traspaiono angoli di terra, e poi d’acqua increspata, e di isole greche e di litorale israeliano, sempre più vicini i grattacieli bianchi di Tel Aviv. Atterriamo sorvolando uno schieramento di camion militari che portano le tracce della sabbia del deserto. All’uscita dell’aeroporto Ben Gurion, l’impatto con un paese di esiliati: donne e uomini anziani che si ricongiungono con i figli, con i nipoti, si scambiano abbracci lunghi e silenziosi. Generazioni di dispersi che si ritrovano in un mondo in guerra. L’auto dell’amico presso il quale abiterò tre giorni attraversa un paesaggio mediterraneo, mosso da collinette dove svettano cipressi incongrui sul suolo quasi arido. Dopo una decina di chilometri, l’autostrada a quattro corsie fende pareti di roccia, come se volesse (o dovesse) incunearsi tra due mondi prima di rivelare, in alto, le case periferiche di Gerusalemme, un agglomerato di edifici bassi e squadrati, costruiti con la pietra chiara che muta al mutare della luce. Mentre risaliamo la strada, compaiono i primi neon con la scritta '40' appoggiata a sbuffi blu. Festeggiano i quarant’anni dalla guerra del 1967, a loro modo aggressivi. Ripetono ogni cinquanta metri la vittoria degli israeliani (come se nelle guerre - la storia non lo insegna mai - ci fossero davvero dei vincitori) ben sapendo che per i palestinesi e per gli arabi quel giorno è stato un giorno di lutto. Il numero civico della casa del mio amico, scritto in ebraico, è 5 aleph. L’ingresso nell’appartamento è un coup di théâtre: una stanza ariosa con tre finestre arabe che affacciano sulla Città Vecchia. Davanti a noi, l’intera Gerusalemme: sulla sinistra il massiccio rettangolo del King David, la torre dell’YMCA, l’Istituto di Studi Biblici e, in una panoramica verso destra, la chiesa della Dormizione, il Campo del Vasaio, la valle della Geenna, la Moschea con la cupola dorata, poi, più nascosta, la Chiesa russa, e ancora l’angolo orientale delle mura turche, il Monte degli Ulivi, fino ad arrivare, a sinistra, nel popoloso quartiere palestinese che risale la collina perdendosi nell’orizzonte. C’è foschia, ma nei giorni limpidi, mi assicura il mio amico, di sera si vedono le luci di Amman. Lungo il versante terroso del Monte degli Ulivi si stende il cimitero più ambito dagli ebrei, quello più vicino a Dio nel giorno del Giudizio. Guardiamo senza commentare (quali parole per tanta storia, tanta bellezza, tanta tragedia) nel vento già fresco del tramonto. La pietra è d’oro. Solo il muro che separa israeliani e palestinesi rimane grigio, come l’assenza di idee, come ogni corpo che non riflette luce. Un’ombra sale sulle case palestinesi, le copre progressivamente, lenta, quasi protettiva. Un orlo rosso borda la collina. Suona la campana della Dormizione, seguita a poca distanza dalle voci dei muezzin, registrate, che fanno le loro invocazioni serali dai minareti illuminati di verde. Arrivano anche suoni di musiche, ebraiche e arabe, e colpi di fuochi d’artificio, per le feste private, i matrimoni. Il traffico sulle strade è incessante. Gerusalemme è in perenne movimento come ogni città mediorientale, che si anima quando è più fresco e le sere stellate invitano a cantare, a ballare, a bere. A pregare, forse a ringraziare, o a imprecare. Prima di addormentarmi guardo la strada dove affaccia la mia stanza. Due bambini palestinesi fanno volare un aquilone ritagliato dalla plastica nera dei sacchi dell’immondizia. Lo hanno ingentilito con una coda di frange. Gerusalemme, 22 agosto. Alle sette, dopo una notte calda piena di sogni senza forma, la luce è già abbagliante. Guardo dalla finestra la Città Vecchia in cui mi ero già addentrata in una visita precedente: mi fa commozione e un po’ di timore (il timore biblico o quello delle mie eterne paure?). Misterioso che lì, su quelle alture a pochi passi l’una dall’altra, si sia svolta la tragedia che doveva riscattare l’umanità. Il mio amico è già andato al lavoro. Viene a prendermi a metà mattina. Oggi ci aspetta la visita di Hebron, una trentina di chilometri da Gerusalemme. La raggiungiamo costeggiando il muro, che ogni tanto si interrompe, si decora, si atteggia a barriera antirumore, ma non riesce a camuffare le sue intenzioni. La povertà e la distruzione avanzano di metro in metro: gommisti con quattro pneumatici rotti (l’arte infinita del riciclo), cumuli di macerie, miseri negozi di vestiti, barbieri all’opera, blocchi di case sventrate, molti manifesti politici. Hebron è grande (200.000 abitanti) ma, nonostante la pace separata che la riguarda (difficile capire bene in cosa consista), continua a essere in stato d’assedio per la presenza di una minoranza di coloni che si è insediata in ogni interstizio e che nemmeno i militari sono riusciti, in tempi recenti, con un contrordine altrettanto violento, a sradicare del tutto. Ci inoltriamo nel suk, uno dei più autentici e belli che finora abbia visto, ed è una visione sconcertante. Dalle case sopra le botteghe alcuni coloni lanciano oggetti contro i palestinesi, che si sono protetti stendendo lunghe reti aeree. Le bottiglie, le cartacce, o peggio, impigliate nelle maglie sono più eloquenti di un corpo del reato, in questa giustizia ingiusta. Un vecchio sdentato e farfugliante, dignitosissimo, ci fa da guida alle tombe di Abramo, Isacco e Giacobbe, che qui secondo la tradizione sono sepolti. Superiamo il controllo ed entriamo nella moschea, dopo avere tolto religiosamente le scarpe e indossato (io, in quanto donna) uno dei mantelli marroni appesi all’ingresso. Attraversiamo la prima grande stanza, nuda ma ricoperta di tappeti, e accediamo alla seconda, dove la nostra guida, sostando davanti alle tombe, sputacchia con estrema serietà e grande senso narrativo le storie bibliche, animandole di dialoghi. E’ soprattutto la sepoltura di Abramo a incuriosirmi, in una piccola stanza a parte: da un lato c’è un locale dove un gruppo di musulmani, uomini e donne, ascolta una lezione, dall’altro, al di là di una grata, ci sono ebrei in preghiera. Dividono in questo modo separato e, in fondo, civile, lo stesso Patriarca. Agli angoli della moschea tre uomini, uno piuttosto giovane, gli altri vecchi e malandati (uno dei due è cieco), leggono, o coccolano, il Libro. Un ingresso in Hebron duro e insieme morbido, inasprito dalla scritta che, all’uscita, vediamo campeggiare su un muro: 'Gas the Arabs'. A casa, l’incanto di Gerusalemme dalla finestra è lo stesso, ed è cambiato. Gerusalemme, 23 agosto. Mattina allo Yad Vashem, il 'monumento' dedicato all’Olocausto. Freschezza per gli alberi e il giardino verde del museo, un po’ discosto dalla città, come un cimitero moderno. Compostezza, raccoglimento, poche sottolineature. Sotto ogni albero, lungo i viali e le piazze intitolati a persone e luoghi (dai Giusti di Israele agli abitanti del ghetto di Varsavia) piccole targhe con i nomi dei morti. Toccante il palazzo consacrato ai bambini, buio, come fumoso, con candele e luci che a poco a poco orientano lo sguardo e aprono abissi in un gioco di specchi. Voci registrate di uomini e donne nominano i bambini uccisi, di ogni parte del mondo. Impossibile trattenere un pianto interiore. Il pomeriggio ho appuntamento con un ragazzo, arabo di Gerusalemme, che collabora con un’organizzazione israeliana contraria agli espropri delle case dei palestinesi. Aspetto insieme a lui, in uno stanzone a bordo strada, un altro 'turista' che non si presenta. Dopo un quarto d’ora, sulla sua piccola macchina, comincio il 'tour': quasi tre ore dentro e intorno a Gerusalemme per vedere gli insediamenti dei coloni a ridosso delle altre case, in una convivenza insostenibile, o in zone residenziali esterne di una tristezza sconfinata. Il mio accompagnatore è molto giovane, ma desideroso di essere preciso, di farmi capire le ragioni della sua parte. Mentre mi indica luoghi e case, mi sommerge di informazioni e dati, molto efficaci. Arrivo all’ufficio dove lavora il mio amico esausta e sgomenta, e aspetto seduta sui gradini di un balcone, al riparo dal caldo, che lui concluda la sua giornata. A casa, senza dirci nulla ma di comune intesa, evitiamo di guardare dalla finestra e poco dopo ci immergiamo di nuovo nella città insonne in cerca di un ristorante. Ben Gurion, 24 agosto. Riparto in un pomeriggio ventoso, dopo avere attraversato una seconda volta con emozione la Città Vecchia, molte città dentro la città dove la convivenza, in qualche strano modo, sembra realizzata. Ma questa volta porto con me anche un’altra Gerusalemme. «Quali parole per tanta bellezza, tanta storia e tragedia? È misterioso che qui, su queste alture a pochi passi l’una dall’altra, si sia svolto il sacrificio che doveva riscattare l’umanità. La Città Vecchia in cui mi addentro mi fa commozione e un po’ di timore, mentre a Hebron visitiamo le tombe di Abramo, Isacco e Giacobbe»
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