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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
20.08.2008 Israele e Germania si contendono le carte di Kakfa
conservate in un appartamento di Tel Aviv

Testata: Corriere della Sera
Data: 20 agosto 2008
Pagina: 43
Autore: Dario Fertilio - Claudio Magris
Titolo: «Il Kafka conteso fra Israele e Germania - Il destino è un deserto senza Terra promessa»
Dal CORRIERE della SERA del 20 agosto 2008, la cronaca di Dario Fertilio sulla polemica intorno alle carte di Kafka:

A chi toccano le carte di un genio? Risposta semplice, da un punto di vista legale: a chi ne è legittimamente in possesso. Ma nel caso di un Franz Kafka, nato in Boemia, cittadino dell'Austria-Ungheria, ebreo di stirpe, laico per convinzione, tedesco per scelta letteraria, radicato nella diaspora ebraica però anche incuriosito dal sionismo, che cosa può succedere?
Per il momento, quel che si profila è un caso internazionale, a metà fra il giallo e l'incidente diplomatico. Protagonisti: israeliani e tedeschi, entrambi in possesso di buone ragioni per rivendicare il diritto all'eredità letteraria del grande. Ma è probabile che il profumo di possibili, clamorosi inediti kafkiani, conservati per decenni in un appartamento di Tel Aviv dal suo amico Max Brod, e successivamente ereditati dalla fedele segretaria, finisca con l'eccitare nuovi appetiti ed allargare il numero dei pretendenti. Dopotutto, non era Vienna la capitale di quell'Austria-Ungheria che fungeva da sfondo squisitamente mitteleuropeo della sua opera? E d'altra parte non era Praga, con il suo Castello che avrebbe ispirato uno dei suoi più celebri romanzi, il luogo vissuto e fantasticato, intrecciato così profondamente al destino di Kafka da ispirare un altro famoso baedeker letterario,
Praga magica di Angelo Maria Ripellino?
Vediamo di riassumere i contorni della vicenda. La notizia sui documenti inediti portati in Israele dentro a una valigia dal grande amico di Kafka, lo scrittore Max Brod, e abbandonati dopo la morte di quest'ultimo in un appartamento di Tel Aviv, era stata illustrata il 7 luglio scorso sul Corriere
da un articolo di Davide Frattini. Ieri, ecco l'International Herald Tribune fornire nuovi particolari: dopo la morte di Brod, le carte misteriose passano alla segretaria, l'anziana ed eccentrica Esther Hoffe, che però preferisce occuparsi dei suoi innumerevoli gatti, confinando gli scritti in un sotterraneo. Morta più che centenaria, lascia tutto alla figlia Hava, di 74 anni, che rilascia dichiarazioni un po' ambigue intorno alle sue intenzioni: forse venderà, forse regalerà qualcuno dei documenti, certo non è «così stupida da tenerseli in casa». Quindi aggiunge di sentirsi pressata in ogni direzione, «specialmente dallo Stato di Israele », di trovarsi quasi «sotto assedio e impigliata in una rete».
Ed ecco, quasi a confermarne i timori, entrare in campo il professor Mark Gelber, dell'università Ben Gurion di Beersheba. «Quel materiale appartiene a Gerusalemme », dichiara. «Brod divenne un sionista prima della Grande guerra; ha vissuto, lavorato ed è stato sepolto in Israele. Meno conosciuto è il fatto che Kafka stesso era una personalità ebraica totalmente impegnata, uno scrittore intimamente legato al sionismo e agli ebrei». Del resto, conclude Gelber, la Biblioteca nazionale di Gerusalemme contiene già scritti di personalità ebraiche eminenti, come Einstein e Martin Buber: dunque, «sarebbe la casa naturale anche per Kafka».
Non tutto, però, si presenta così facile. Proprio da Israele il sito online del quotidiano
Haaretz informa che l'Archivio della letteratura tedesca di Marbach, in Germania, già in possesso di una selezione di lettere kafkiane, ora rivendica il diritto di ottenere i frammenti — o quel che siano — custoditi per tanto tempo nella casa di Tel Aviv dalla eccentrica Esther prima, e dalla figlia Hava adesso.
La questione, però, non è più soltanto fra Israele e Germania, e va oltre il caso Kafka. Prendendo lo scrittore praghese a simbolo della cultura cosmopolita e difficile da ingabbiare, si pone una domanda più generale: a chi appartengono veramente le opere di un genio?
Risponde un intellettuale di frontiera come Predrag Matvejevic: «Appartengono in primo luogo a quell'ambiente ebraico mitteleuropeo che ha fatto tanto per evitare che le culture nazionali diventassero ideologie aggressive. Basta pensare a Roth o Wittgenstein, Freud, Svevo, Saba, Danilo Kis. In senso più ampio persino Karl Marx, Einstein, Brodskij o Isaak Babel. Lo prova il fatto che, scomparsi gli ebrei, la cultura del Centro Europa è andata sempre più provincializzandosi ». Di parere un po' diverso la scrittrice e germanista Paola Capriolo: «La patria di un letterato è la sua lingua. Però nel caso di Kafka, la radice ebraica — benché non religiosa — ha anch'essa la sua importanza. Chi può vantare meno pretese su di lui invece è Praga, tanto più che quella di Kafka non esiste più, è soltanto un luogo della memoria».
Lo storico Gian Enrico Rusconi, che dirige il Centro per gli studi italo-germanici di Trento, preferisce una lettura in divenire della vicenda: «Da ragazzo il mio Kafka era solo l'autore del Castello. Poco alla volta è cresciuto, è diventato un gigante, e tanti hanno cominciato a rivendicarne un pezzetto. Io continuo a sentirlo un autore più mitteleuropeo che ebraico, ma credo che tutto possa cambiare in fretta. Anche fra gli ebrei, tanti che oggi rivendicano combattivamente la loro identità ancora negli anni Sessanta la lasciavano sullo sfondo».
E l'editore Roberto Calasso, autore dell'indagine letteraria significativamente intitolata
K., boccia decisamente le pretese israeliane: «L'argomentazione degli storici, se davvero si presenta come viene riferita, è una grossa sciocchezza sotto tutti i punti di vista».
Per ora l'ultima parola conviene forse lasciarla alla discussa custode delle carte, Hava Hoffe: «Questa storia, credetemi, è veramente
kafkiana ».

Il commento di Claudio Magris:

I n una pagina ironica e lieve, Kafka racconta l'incontro in treno, all'epoca della Prima guerra mondiale, con un ufficiale tedesco. L'ufficiale gli domanda da dove venga e poi gli chiede di quale nazionalità sia. Kafka gli risponde, ma l'altro non arriva veramente a comprendere quale sia la sua nazionalità. Egli è nato a Praga ma non è céco; è cittadino austriaco, ma l'ufficiale non lo può identificare come austriaco; è ebreo, ma sradicato dall'ebraismo. La sua identità disorienta il compagno di viaggio. Kafka stesso è una frontiera. Il suo corpo e il suo animo sono un luogo in cui si incontrano, si incrociano e si sovrappongono tante frontiere diverse come cicatrici.
Kafka è spiritualmente extraterritoriale per eccellenza; tutta la sua opera è una traversata nel deserto, nell'esilio ebraico, nella diaspora. Il rapporto con l'ebraismo — mirabilmente indagato dal suo più grande studioso, non solo italiano, Giuliano Baioni — è centrale, fondamentale per la sua opera. Il vicolo cieco quale condizione universale umana, espresso così grandiosamente nei suoi libri, nasce anche e soprattutto dalla situazione degli ebrei tedeschi di Praga, che si erano identificati con la cultura tedesca allontanandosi così dal mondo céco e che, respinti poco dopo dall'antisemitismo tedesco, si trovano in una terra di nessuno. Kafka si considera un ebreo fuori da quella Legge che per lui è la vita e la verità, ma una verità inaccessibile, particolarmente a lui. Avrebbe voluto essere un ebreo orientale radicato nella vita come gli attori yiddish che ammirava a Praga, ma sapeva di essere escluso dal loro mondo, povero e magari cencioso ma autentico e vitale. «Il mio nome ebraico è Amshel», diceva: il nome dell'uomo che egli avrebbe voluto essere, un padre di famiglia ebraico radicato nella pienezza della vita. Ma il suo destino era essere fuori da quella pienezza; il suo destino era «essere solo come Franz Kafka» diceva egli stesso, dire quella verità e, per dirla, esserne escluso. Con lo stesso spirito scriveva all'amata Milena di essere «fuori dal territorio dell'amore».
Per il sionismo, così fervido a Praga, aveva un fortissimo interesse, ma esso non era il suo mondo. Nell'ultimo periodo della sua esistenza si era accostato ancor di più all'ebraismo, anche attraverso Dora Dymant, con la quale sperava di realizzare quell'umanità che trovava in una frase del Talmud da lui citata: «un uomo senza una donna non è un uomo», sentenza che era anche una sua condanna. La sua verità non era radicarsi nella Terra Promessa, bensì, come Mosè, camminare attraverso il deserto verso di essa, sapendo che non avrebbe mai potuto mettervi piede.

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