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Giuditta Mario Brelich
Adelphi Euro 18
Una Bibbia da secondo dopoguerra, irrimediabilmente in polemica con l’Italia benpensante. C’è qualcosa, nell’avventura esegetica di Mario Brelich, che ricorda Emilio Villa, un altro guastafeste degli studi biblici dell’epoca. Pur nelle grandi differenze di formazione e intenti, entrambi vollero imboccare contromano la via dell’Antico Testamento, in barba alle buone creanze.
Sia Brelich sia Villa restarono largamente incompresi in vita e si dovettero contentare di una fortuna tardiva e modesta. Quasi esoterica, in realtà, la fama villana, un poco più ampia quella di Brelich, grazie anche alla prosa accattivante dei suoi “saggi romanzati”.
La “Giuditta” che appare postuma presso Adelphi, è un brillante esempio di riscrittura ironica e trasgressiva della trama veterotestamentaria. Brelich trasforma l’antica saga della vedova, capace di mozzare con un colpo di spada la testa dell’odiato Oloferne, in un dramma psicologico, anzi psicoanalitico, di sorniona ambientazione borghese.
E’ una ricostruzione intessuta di reticenze, in cui le lacune della narrazione biblica vengono trasformate in altrettanti spunti d’interpretazione. Brelich dialoga col lettore, anzi lo intrattiene con un tono di causerie colta, quasi fosse seduto al tavolo di un caffè mitteleuropeo.
Insomma, che tipo di donna era questa Giuditta? E poi, era davvero così virtuosa? Non c’è dubbio che fosse bellissima e si fosse cacciata in un complotto di prim’ordine. Brelich la ritrae come una specie di Mata Hari, impegnata in una spregiudicata operazione di spionaggio. Ma il mandante, “il misterioso Vecchio, a capo di ogni intelligence che si rispetti, questa volta è addirittura il vecchio Dio dell’Antico Testamento”.
Il canovaccio biblico si trasforma così nella storia di un complotto internazionale, in cui Giuditta, da sola nell’accampamento nemico, mette a nudo, prima ancora del suo corpo desiderabile, un’anima da gran dama nevrotica. Come in ogni thriller che si rispetti, c’è una macchia nel passato dell’eroina, un trauma sessuale che Brelich esplora col tatto di un uomo di mondo, arrabbiandosi per di più coi lettori se non sanno raccogliere la sua sfida di teologia psicanalitica: “Cerchiamo di non dimenticare, per carità, che Giuditta era una santa e pia donna, e non una puttanella…”
Fragile fin che si vuole, insomma, la nostra vedova, ma proprio per questo adattissima alla missione affidatale dal grande Vecchio, “giacchè, malgrado l’enorme differenza che corre fra un dio, un ammiraglio Canaris, o un Al Capone, essi si assomigliano su un punto essenziale: scelgono con oculatezza”. D’altronde fare la festa a Oloferne non è poi così facile, sia perché è potentissimo, sia perché – ed è questo il lato piccante del libro – il generale assiro è in realtà un navigato tombeur de femmes.
Sappiamo tutti come andò a finire, ma Brelich riesce a mantenere la suspense fino all’ultima pagina, dando a ciascuno il suo, ovvero a Dio l’alto dei cieli, a Giuditta una vittoria che più amara non si può, e a noi una Bibbia spregiudicata, un po’ farsa e un po’ tragedia.
Giulio Busi
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