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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
18.08.2008 L'ebreo errante e il poeta nazionale palestinese
George Steiner rievoca il suo incontro con Mahmoud Darwish

Testata: Corriere della Sera
Data: 18 agosto 2008
Pagina: 31
Autore: Nuccio Ordine
Titolo: «Se la storia è una valigia pronta»

George Steiner pensa che il destino degli ebrei sia l'esilio. Vede nella nascita di Israele  una sorta di caduta morale degli ebrei, che per lui non sarebbero mai dovuti diventare artefici della propria storia. Nega  la validità delle rivendicazioni ebraiche sulla terra di Israele. D'altro canto, il suo rifiuto del nazionalismo è generale, cosa che gli impedisce di diventare un sostenitore della causa palestinese. 
Il poeta palestinese Mahmoud Darwish era un nazionalista, un antisionista che negava il diritto all'esistenza di Israele e sosteneva la rivendicazione dell'intera Palestina mandataria come Stato arabo. E certo non si è mai posto particolari problemi sugli effetti che l'uso di  mezzi violenti al servizio della causa nazionale palestinese poteva avere sulla moralità della sua gente: è stato per anni membro dell'Olp, uscendone solo in dissenso con gli accordi di Oslo, non con la pratica terroristica. 
Il CORRIERE della SERA pubblica ora un articolo di Nuccio Ordine, incentrato sulla rievocazione, da parte di Steiner, di un incontro con Darwish (recentemente scomparso).
I quotidiani hanno le loro esigenze, e si capisce bene che, per renderlo più interessante, quello  tra Steiner  e Darwish venga presentato come un dialogo quasi impossibile tra rappresentanti di visioni opposte e inconciliabili.
Sul piano esistenziale, potrebbe anche essere così: tra chi "preferisce le gambe", come Steiner e chi "le radici" come Darwish, la distanza umana sarà anche incolmabile.
Sul piano storico e politico, però, questa distanza sembra ridursi fino ad annularsi. Steiner e Darwish finiscono per essere figure complementari. L' ebreo che ha sempre "la valigia in mano",  che Steiner vuole incarnare e - più importante - nel quale ritiene che tutti gli ebrei dovrebbero identificarsi, è lo stereotipo perfetto per le esigenze ideologiche di un intellettuale militante come era Darwish. Un stereotipo, vale la pena di notare, che ricorda molto da vicino quello nel quale per secoli gli ebrei sono stati costretti indipendentemente, e per lo più contro, la loro volontà. L'ebreo di Steiner assomiglia un po' troppo all'ebreo errante. Non sarà il semplice calco positivo di quell'immagine, che appartiene alla tradizione dell'antisemitismo cristiano ?  
Il "destino degli ebrei è l'esilio", comunque,  sarebbe una parola d'ordine perfetta per ogni piattaforma politica radicalmente antisionista. In quanto all'eventuale estensione della raccomandazione della virtù dell'esilio ad altri popoli: è molto improbabile che qualcuno di essi segua il consiglio, e questo deve saperlo anche Steiner.
 E' stato solo per un equivoco, ci sembra, se  lui e Darwish non si sono capiti.
Ecco il testo completo:


«Ricordo con commozione quell a serata con Mahmud Darwish a Parigi. Ci fu un grande rispetto da entrambe le parti. Ma credo di averlo deluso. Lui, forse, sperava che io potessi schierarmi a favore della causa palestinese. Gli risposi che gli uomini hanno le gambe e gli alberi le radici: io preferivo le gambe e lui le radici. Lo stesso discorso vale per Israele: per me il destino degli ebrei, l'ho scritto più volte, è quello di avere sempre la valigia in mano»: George Steiner commenta con grande tristezza la recente scomparsa del palestinese Mahmud Darwish, uno dei più grandi poeti arabi contemporanei. E la memoria lo riconduce al primo e unico incontro che il critico ebbe con lui nel ristorante parigino «Les éditeurs», all'incrocio di piazza dell'Odéon. «La giovane scrittrice franco-iraniana Cécile Ladjali — spiega Steiner — mi aveva più volte parlato del desiderio di Darwish di incontrarmi. Bisognava aspettare la coincidenza di un nostro soggiorno parigino. E, dopo diversi tentativi falliti, finalmente cenammo assieme il primo dicembre del 2006».
Fu un'occasione speciale. Per qualche ora, si ritrovarono l'uno di fronte all'altro due intellettuali così diversi, così distanti, ma accomunati dalla passione e dall'amore per la letteratura. Mahmud Darwish, poeta dell'esilio e della nostalgia per la sua terra; George Steiner, teorico dell'erranza e cittadino del mondo. Il primo, anche se per necessità, convinto militante; il secondo lontano, per principio e per pudore, da ogni coinvolgimento diretto nella vita politica. Il palestinese che rivendica la sua nazione e l'ebreo che rifiuta il sionismo e ogni forma di nazionalismo. Il poeta che si concede alla critica e il critico che si concede alla narrativa. Ho avuto la fortuna, assieme a pochi ospiti, di partecipare a questo incontro. Di essere testimone diretto di un difficile e intenso dialogo tra due forti personalità, fatto anche di lunghe pause, di eloquenti silenzi e di sguardi carichi di tensione.
Adesso che il cantore della libertà e della vita non c'è più, Steiner non può fare a meno di ricordare con emozione quell'incontro e di parlare del poeta scomparso. «Ho sempre avuto un'enorme ammirazione per Darwish, per la sua poesia, per il suo impegno. E dico ciò con la consapevolezza che il mio giudizio si basa esclusivamente sulle traduzioni. Ma per apprezzare a fondo un poeta non basta. Bisogna necessariamente conoscere la lingua originale. E io non conosco l'arabo. Per Edward Said, l'altro grande palestinese scomparso, era tutto più facile: lui poteva rivolgersi al mondo occidentale direttamente in inglese».
Steiner, ripercorrendo sul filo del ricordo i momenti più significativi di quell'incontro, non esita a rievocare il profondo solco che li divideva. «Ho ascoltato con grande attenzione, e talvolta con partecipazione, i suoi racconti dell'esilio e dell'umiliazione, del dolore e della nostalgia, della prigionia e della sofferenza. Ho ritrovato nelle sue parole l'intensità di alcuni versi autobiografici che mi avevano colpito. Ma la poesia di Darwish dà voce, soprattutto, a un popolo senza pace che rivendica una patria e un territorio. La mia esperienza mi fa rifiutare qualsiasi forma di nazionalismo. Con l'espressione "io abito in una valigia" lui alludeva alla triste condizione di chi vaga da una città all'altra. Più volte, al contrario, ho ricordato che "vivere con la valigia in mano" dovrebbe essere soprattutto il destino del popolo ebraico».
Su questo tema il critico ha insistito in diverse occasioni. Nell'ultimo suo saggio — I libri che non ho scritto (che sarà presentato a Milano il 24 ottobre da Umberto Eco e Claudio Magris, in occasione della pubblicazione da Garzanti della traduzione italiana) — un capitolo intero è dedicato a Sion. Qui Steiner parla diffusamente delle contraddizioni e delle «impossibilità» che hanno caratterizzato il suo rapporto con Israele. «Probabilmente Darwish aveva letto alcune mie riflessioni sulla missione del pellegrino ebreo che avrebbe dovuto imparare a essere "invitato" degli altri. Il popolo ebraico non ha mai ricevuto un certificato di proprietà, divinamente controfirmato, per una terra promessa o per un qualsiasi altro luogo del Medio Oriente. E pur comprendendo le ragioni di molti perseguitati e scampati alla morte che dopo la tragedia della Shoah aspiravano ad una nazione, ho sempre pensato che umiliare e infliggere dolore ad altri esseri umani fosse, in qualsiasi caso, un gravissimo errore. Per secoli gli Ebrei non hanno torturato  nessuno. La fondazione di Israele ha macchiato questo "nobile primato". Ma dissi chiaramente a Darwish che il mio orrore per i nazionalismi non mi avrebbe mai spinto nella sua direzione ».
Steiner ammette però che la sua posizione radicale è suscettibile di critiche da entrambe le parti. «So bene che esprimo il punto di vista privilegiato di chi osserva da lontano il conflitto tra Israele e i palestinesi. Capisco l'inevitabile lotta per la sopravvivenza degli israeliani e capisco la legittima difesa della propria terra da parte dei palestinesi. Ma sono sempre più convinto che la verità — come ha sostenuto Baal Shem Tov, grande maestro del chassidismo — sia sempre in esilio. Come avremmo potuto intenderci con chi, come Darwish, ha cantato il dolore dell'esilio e ha fatto dei suoi versi uno strumento di combattimento?».
Ricordo a Steiner che Mahmud non amava essere etichettato come il «poeta della resistenza »: «Io sono palestinese — aveva dichiarato in una celebre intervista —, un poeta palestinese, ma non accetto di essere definito unicamente come il poeta della causa palestinese; non voglio che si parli della mia poesia come se io fossi lo storico, in versi, della Palestina». Anzi, ci disse che, per liberarsi da questo luogo comune, nelle ultime raccolte aveva cercato di privilegiare i temi universali dell'amore, della vita, della morte, della pace. Per un lungo periodo, ci confessò a tavola, si era illuso che la poesia potesse essere uno strumento di cambiamento. Negli ultimi tempi, invece, si era convinto — citando un celebre verso di Auden — che «la poesia non fa accadere nulla». «Ricordo vagamente questo passaggio. Ma non credo sia sempre vero. La poesia ha fatto talvolta accadere delle cose in alcuni momenti importanti della storia. Si pensi alla letteratura russa e al ruolo che alcuni poemi hanno avuto nello svolgersi degli avvenimenti da Puškin a Brodskij. E Darwish l'aveva vissuto sulla sua pelle, quando lo sciovinismo di un primo ministro israeliano vietò nel 2000 che alcune sue poesie figurassero nei programmi delle scuole. Una vergognosa censura...
«Sapevamo entrambi — conclude rassegnato Steiner — che forse non ci saremmo più rivisti. Non avrei mai pensato che così precocemente, a 67 anni, sarebbe stato rapito dalla morte. Fu comunque un incontro con un interlocutore straordinario. Capii che il disaccordo può essere anche fonte di ammirazione e di reciproca comprensione».

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