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La Repubblica Rassegna Stampa
17.08.2008 Incontro con Amos Oz
lo scrittore israeliano e i suoi lettori

Testata: La Repubblica
Data: 17 agosto 2008
Pagina: 50
Autore: Carlotta Mismetti Capua
Titolo: «Storie di famiglia»
Da La REPUBBLICA del 17 agosto 2008: 

Fa caldo, ma Amos Oz è un uomo del deserto. È abituato all´aria che scotta. Però aria secca, e Roma invece è umida come una vaporiera. Oz, che non lo sa che Roma è umida, si presenta all´appuntamento vestito per l´appunto come un uomo del deserto, tutto coperto: giacca di lana, pantaloni indistruttibili e scarpe comode. Come se oggi si camminasse molto. Invece oggi si va in taxi. Un pomeriggio a Roma, in taxi. Da un capo all´altro della città, per raggiungere una libreria di quartiere, fuori dal centro, dove Oz presenta il suo nuovo romanzo.
Amos Oz è professore, insegna letteratura all´Università Ben Gurion del Negev in Israele; ma oggi è venuto a incontrare un tipo diverso di studenti, i suoi lettori. Oz scrive per loro, e per se stesso. E per spiegare perché scrive cita una massima del poeta inglese William Wordsworth: «Art is emotion recollected in tranquillity». L´arte è emozione ricordata nella tranquillità. E l´ha trovata questa tranquillità, Mister Oz? «Non lo so, davvero non lo so», dice mentre sale sul taxi. I suoi romanzi sono molto amati in Italia, e tradotti in tutto il mondo. «Perfino in Albania», dice Oz. Pare molto contento di questa cosa dell´Albania.
Il taxi segue la marea delle macchine, dal finestrino si vede il Tevere e i platani che lo abbracciano, l´Ara Pacis di Meier e dietro quella cupola poggiata a terra chiamata Mausoleo di Augusto, che l´imperatore aveva scelto come tomba per sé dopo aver visto, ad Alessandria, la tomba di Alessandro Magno. Tonda, anche quella. Oz la guarda dal finestrino, dice: «Ci andrò, grazie. Torno in settembre a Roma, per vacanza, e porto con me i miei nipoti».
Ora che si è accorto che dai finestrini si vede tanta Roma, Oz guarda tutto e quando vede i Fori dice al tassista: «Ma questo taxi è un vero viaggio». Il tassista non risponde, un po´ perché sente parlare inglese, un po´ perché capisce che non è aria di chiacchiere sul governo o sulle strisce blu. Ma Oz conosce la psicologia del tassista, perché è la stessa in tutto il mondo. E racconta allora dei tassisti israeliani: «Ognuno si sente primo ministro», scherza. «Appena salgo, immediatamente, intraprendono grandi discussioni con me. Politiche ma anche letterarie. Perché in Israele i tassisti sono buoni lettori. E allora mi dicono che quel personaggio avrebbe dovuto dire la certa cosa, e quell´altro non doveva fare quello che ha fatto, e mi propongono finali diversi per le mie storie. Sulla politica, invece, per lo più si infuriano. Mi sentono parlare in tv, e mi dicono di tutto. Non hanno nessun riguardo, né per la fama né per l´autorità. Sono molto egualitari i tassisti israeliani».
Passiamo davanti al Colosseo, Oz torna a parlare del viaggio con i nipoti e dice che come prima cosa li porterà qui, gli farà vedere quel che resta del grande anfiteatro. «E accanto al Colosseo l´Arco di Tito: dirò loro che quell´arco è stato costruito per celebrare la distruzione di Gerusalemme. E che oggi Gerusalemme è ancora in piedi, milioni di persone parlano l´ebraico e nessuno parla più il latino». Nelle sue parole questa cosa della distruzione del Tempio pare un evento del nostro tempo, non un fatto accaduto nel 70 dopo Cristo. Ci viene da pensare che la distruzione del Tempio di Gerusalemme, raffigurata proprio nei bassorilievi dell´Arco di Tito, è ancora ricordata ogni anno nella festa ebraica della Tisha B´av, e così non commentiamo.
Ma parliamo del suo cognome: Oz. Scelto a sedici anni, quando lascia la casa del padre Amos e va a vivere in un kibbutz, dove resterà trent´anni e dove sceglie il cognome Oz e abbandona quello di Klausner. «All´epoca non avevo altra scelta che questo nome. "Oz" in ebraico significa due cose: forza e coraggio. E avevo bisogno di molti "oz", per fare quello che feci», ricorda stringendo gli occhi così forte che quasi li chiude. Quello che fece - lasciare la casa del padre e cominciare il suo viaggio dall´amore al dolore, andata e ritorno - Amos Oz lo racconta nelle seicentoventisette pagine di Una storia di amore e di tenebra, il suo libro più amato. Una biografia del sogno della nascita dello stato di Israele, e una biografia della sua famiglia: colta, complicata, e ferita da un incancellabile dolore: il suicido di sua madre Fania, quando Amos ha tredici anni.
Di questa ferita Oz non aveva mai parlato né col padre, né con la moglie, né con i figli, prima di metterlo per iscritto, a sessantatré anni, in un libro letto da milioni di persone. Ci vuole la giusta distanza, con le parole amore e dolore. Oz l´ha trovata ora la giusta distanza: la tranquillità non lo sa. Ci parla di come la cerca ogni giorno, questa distanza, e di quello che vede dalla finestra della sua casa ad Arad: «Vivo ai bordi della città, proprio dove comincia il deserto. La mattina, appena sveglio, apro la finestra e guardo fuori. Si vede un piccolo giardino di pietre, un cipresso. Allora mi faccio il caffè, e verso le cinque e mezza mi incammino nel deserto. Ogni giorno cammino quarantacinque minuti ad andare e quarantacinque a tornare. Quando torno accendo la televisione. E se vedo un politico che non dice nulla, perché non dicono mai nulla, io penso: le pietre del deserto ridono di tutto questo». Nell´immenso deserto, però, oltre alle pietre c´è la luce. «È una luce gentile», ricorda Oz, sempre con gli occhi lontani. «È una luce piena di colori, che somiglia a una musica».
Oggi quarantacinque minuti sono invece la distanza tra il Colosseo e la libreria di periferia, e lo scrittore a un certo punto sembra avere fretta di arrivare. Mentre il tassista parcheggia davanti alla libreria, Oz fa una domanda che rivela che tipo di fretta sia la sua: «Che genere di persone viene in una libreria così lontana, alle sei di sera di un lunedì d´estate?». Così capiamo che a questi lettori Oz tiene moltissimo. Li descrive anche nella prima pagina del suo nuovo romanzo, La vita fa rima con la morte. Una pagina di sole domande: tutte quelle che gli fanno i giornalisti, i critici, i lettori: «Ti interessa influenzare i tuoi lettori?». «Cosa si prova a essere uno scrittore di successo?». «Scrivi a penna o su una tastiera?». «Ti consideri uno scrittore militante e, se sì, militante su che fronte?». Il brano si chiude con la domanda più ricorrente che uno scrittore come Oz si sente ripetere, e che lui ironicamente riporta così: «Vuoi spiegarci per favore, in breve e con parole tue, che cosa esattamente volevi dire nel tuo ultimo romanzo?».
Per spiegarlo, ancora una volta, con parole sue, Amos Oz ha preso un taxi da Arad a Gerusalemme, un aereo da Gerusalemme a Roma, e ora scende dal taxi romano ed entra nella libreria trotterellando, come camminasse su una sabbia che scotta. Tutto per incontrare questi suoi lettori e le loro assurde domande. La prima è una ragazza di nome Alice, che gli ha portato in dono dei peperoncini dalla Calabria, e lo aspetta in piedi, vicino alla porta. Quando lui la ringrazia e mette il barattolo in borsa, la ragazza si rende conto che i suoi peperoncini sott´olio non passeranno il check-in israeliano ma quello che è venuta a chiedergli glielo chiede lo stesso: «Io non ho capito una cosa del suo libro. Quando lei scrive che bisogna levigare il dolore. E gettare più di un´ombra soltanto. È un´espressione della sua lingua, questa dell´ombra?», chiede la ragazza dei peperoncini. Oz dice di no: «L´ho inventata io. Vuol dire dare più di un significato alle cose».
La ragazza Alice si siede e la presentazione comincia. Oz legge un brano del suo ultimo romanzo, nella sua lingua, davanti al suo popolo sparso per il mondo. Quando parla nella sua lingua, Amos Oz sembra un fiume pietroso, dove qualche volta l´acqua canta e qualche volta sbatte. Quando la presentazione è finita, e i relatori hanno parlato, e Oz ha detto quello che aveva da dire sul suo nuovo romanzo «scritto con un sorriso triste», chiosa, allora viene il tempo di ascoltare quello che i suoi lettori sono venuti a dire a lui, di persona.
Cominciano le domande. Una signora con un ventaglio ne fa una lunghissima, sul rapporto tra scrittura e solitudine, che nessuno in sala capisce, tranne Oz. E lui decide di rispondere da uomo, non da scrittore: «Nel mio caso è un´abitudine, ce l´ho fin da bambino, ma oggi ho imparato a confrontarla con quella altrui. La solitudine è l´unica sostanza dell´universo che, quando si moltiplica, in realtà diminuisce». E, sempre parlando di solitudine, risponde a un´altra domanda e dice: «L´arte dell´incontro si impara da bambini, ma non smettiamo mai di imparare. Io, ora che ho quasi settant´anni, ho imparato a guardare le persone con ironia e compassione. E quando le guardo, anche nel politico della tv, io vedo il bambino che c´è in fondo. L´arte di avvicinarsi agli altri è l´arte più grande della vita».
Si fa un grande silenzio nel pubblico come se ognuno stesse pensando agli altri "suoi". Fino a quando un bambino scende dalla seggiola, alza il dito per dire una cosa e dice questo: «Io ho letto la sua fiaba D´un tratto nel folto del bosco, quella che parla del villaggio dove sono scomparsi gli animali. Volevo dirle che leggerla mi ha aiutato ad avvicinarmi ai miei compagni di classe. Prima avevo paura». E si siede, con i suoi occhialini esagonali e tutto il coraggio dei suoi undici anni. Oz risponde: «Di tutte le cose che ho sentito oggi questa è quella che davvero tocca il mio cuore». Quando si alza sembra una pianta che è stata appena innaffiata. Dopo aver firmato ogni copia con la parola «shalom», l´impenetrabile Oz sorride, va via salutando tutti con la mano e fa "ciao-ciao" mentre sale sul suo taxi.

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