A Damasco è in corso un faida o una purga di regime ? analisi di una misteriosa catena di omicidi
Testata: Il Foglio Data: 12 agosto 2008 Pagina: 3 Autore: la redazione Titolo: «Dieci piccoli indiani in Siria. La fiada punta verso l'a»
Da Il FOGLIO del 12 agosto 2008:
Roma. La scena è degna di un film di James Bond: in una calda sera d’agosto il generale si gode il tramonto mediterraneo sdraiato sulla sua chaise longue, nella villa del compound di Tartus, super protetto rifugio dei grandi boiardi del regime siriano. Quattro colpi secchi, dal mare. Il cecchino ha una mira straordinaria, il generale Muhammad Suleiman si porta le mani al collo. Morto sul colpo. Delitto impossibile, come uccidere Beria nella sua isba ai tempi di Stalin. Suleiman è tra gli uomini più potenti, temuti e protetti del regime Baath. Ha potere vero, potere ombra: è il più vicino e prezioso collaboratore militare del presidente Bashir el Assad, il suo braccio destro occulto. Ma delitto compiuto. Impossibile anche uccidere il misterioso iraniano con cui per anni il generale ha lavorato fianco a fianco. Eppure, sei mesi fa, Imad Mughniyeh, il comandante militare di tutte le operazioni iraniane all’estero, il raccordo tra Teheran, Damasco e Hezbollah, è saltato per aria in una strada di Damasco. Di nuovo, come fare saltare in aria Beria dentro le mura del Cremlino sotto Stalin. Tira una strana aria in Siria. Aria di morte, di regolamento di conti. Aria da “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie: una serie ormai impressionante di morti vere e morti politiche che squassano il regime. Ma poco si capisce. Chi uccide chi? Sono due bande di regime che si massacrano a vicenda? Oppure le vittime sono tutte da una parte? Presto per dirlo. L’unica cosa certa è che il Mossad non c’entra, se non altro per la banale ragione che il Mossad nega ogni coinvolgimento là dove, da 50 anni in qua, non l’ha mai negato. Nell’attesa della prossima immancabile vittima eccellente – magari lo stesso Bashir el Assad – l’unica cosa che è utile fare è mettere in fila gli avvenimenti. Se lo si fa, il quadro che ne esce è ancora confuso, sfocato, ma ha una sua logica. Tutto ha inizio a Beirut la mattina del 14 febbraio 2005 quando un’enorme carica esplosiva fa saltare in aria l’ex premier della coalizione antisiriana, Rafiq Hariri, assieme a venti persone. Lo sdegno popolare per l’omicidio è tale che inizia l’effimera “primavera libanese”, che segna la fine della trentennale occupazione militare del paese dei cedri da parte di Damasco. Obbligato dalla pressione internazionale a ritirare i suoi 30 mila militari dal protettorato libanese, Bashir el Assad convoca per il 6 giugno del 2005 un cruciale congresso del partito unico di regime: il Baath. Oggi, alla luce della scia di morti di regime che da quel congresso inizia a dipanarsi, si comprende appieno il significato di quella mossa. Dopo cinque anni di esercizio del potere, Bashir el Assad ha deciso di liberarsi della tutela soffocante dei collaboratori di suo padre, Hafez, morto il 6 ottobre del 2000. In apertura di congresso – che si svolge naturalmente a porte chiuse, come si conviene alla setta alawita comandata dagli Assad che controlla il Baath – dimissioni di Abdul Halim Khaddam, vicepresidente della Repubblica. In chiusura di congresso, due giorni dopo, dimissioni e sostituzioni dell’uomo più forte del regime, il ministro della Difesa Mustafa Tlass, che controllava le forze armate da più di trent’anni, senza interruzioni. Con lui via anche l’altro vicepresidente della Repubblica, Zuhair Musharqa, l’ex premier Mustafa Miro e altri. Eliminata la vecchia guardia, Bashir el Assad controlla appieno il quadro di regime. Però comincia subito il bagno di sangue nel Palazzo. Abdul Halim Khaddam, fiutata l’aria, fugge a Parigi e salva la vita. Non così il ministro degli Interni, Ghazi Kanaan, che si “suicida” il 12 ottobre 2005. Capo per vent’anni dei servizi segreti siriani in Libano, Kanaan aveva parlato poche ore prima di essere suicidato con un giornalista ed era, come sempre, combattivo e ben deciso a difendersi dalle accuse di avere partecipato al complotto per eliminare Rafiq Hariri. Pochi giorni dopo scade il mandato al procuratore Detlev Mehlis, cui il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha affidato le prime indagini sull’omicidio Hariri e che aveva ipotizzato responsabilità dirette del fratello di Bashir el Assad, Maher el Assad, di suo cognato Assef Shawqat (capo dei servizi segreti) e di altri, incluso il capo dello stato. Il belga Serge Brammertz, che lo sostituisce, dà una svolta netta alle indagini, nel senso che le impaluda e lo scandalo che poteva portare all’implosione del regime è così insabbiato. Si apre una discussione tra gli analisti: chi sostiene che questo insabbiamento sia conseguenza dello “stile” del Tribunale penale internazionale dell’Aja di cui è procuratore aggiunto e chi invece argomenta che è conseguenza della decisione congiunta di Condoleezza Rice e Jacques Chirac (che di Rafiq Hariri era talmente amico e sodale che, lasciato l’Eliseo, è ospite di un suo appartamento a Parigi), i quali temono che incriminazioni formali e una prematura crisi di regime possano consegnare la Siria a una dirigenza condizionata dai fondamentalisti islamici. Seguono comunque due anni di tregua, fino a quando, il 12 febbraio del 2008 (due giorni prima del terzo anniversario dell’uccisione di Hariri), è saltato per aria a Damasco Imad Mughniyeh, il più importante dirigente militare iraniano all’esterno del paese. Scontate le accuse al Mossad – per la prima volta formalmente respinte da Gerusalemme – e scabrose le voci subito riprese dalla stampa araba più autorevole che parla di “autori arabi”. Il più importante collaboratore del leader palestinese Abu Mazen ha dichiarato al Foglio che “al 51 per cento Mughniyeh è stato ucciso su ordine dello stesso regime siriano per fare capire a Teheran e a Hezbollah che dovevano allentare la presa su Damasco, lasciare più spazi di autonomia e smettere di guidare la politica estera della Siria precostituendo una situazione di tensione in Libano, a loro piacimento”. Passano due mesi e da Damasco arriva un’altra notizia bomba: Bashir el Assad ha arrestato Assef Shawqat, che è suo cognato – ha sposato sua sorella Bushra – ma è soprattutto il capo indiscusso di tutti i servizi di sicurezza. L’autorevole Die Welt, qualche settimana dopo, sulla scorta di report dei servizi segreti, sostiene che questo arresto è legato all’assassinio di Mughniyeh, che forse sarebbe stato coperto – se non organizzato – dallo stesso Shawqat. Infine l’omicidio del generale Suleiman, l’unico, fra tutti i protagonisti citati sinora, che segnasse la continuità tra la vecchia guardia di Hafez el Assad e i nuovi collaboratori di Bashir. Suleiman era intimo amico dell’erede designato di Hafez el Assad, Basil el Assad, di cui era l’alter ego, che però morì in un misterioso incidente stradale nel 1994 (è qui l’inizio delle stragi di regime?). Salito al potere Bashir, Suleiman, su mandato del vecchio Hafez, divenne l’ombra del nuovo raìs, l’uomo a lui più vicino, non tanto per le cariche formali quanto per il potere reale. Ora il problema politico dirimente per sciogliere questo sanguinoso mistero siriano è: le bande sono due o una soltanto? Ghazi Kanaan, Mughniyeh, Shawqat e Suleiman sono vittime della stessa centrale di potere o di una faida tra due gruppi del Baath? E Bashir el Assad dove si colloca in questa faida? Soprattutto: è il mandante o un candidato vittima?
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