Da PANORAMA datato 14 agosto 2008:
«Se Teheran continua il suo programma di arricchimento dell’uranio e le sanzioni dovessero fallire, Israele scatenerà l’attacco, credo, nei prossimi 12 mesi. A quel punto avrà bisogno del sostegno di tutte le forze politiche». Non ha dubbi Yossi Klein Halevi, politologo e opinionista del Jerusalem Post. La crisi politica che si è aperta il 30 luglio con le annunciate dimissioni del premier israeliano Ehud Olmert potrebbe concludersi con un esito inatteso: la formazione di un governo di unità nazionale che vada oltre la coalizione di centrosinistra Kadima-Labour e includa l’opposizione di destra del Likud di Benjamin Netanyahu.
Che Olmert fosse arrivato al capolinea lo avevano capito tutti da tempo. Indagato da una commissione parlamentare d’inchiesta per i dubbi risultati della guerra in Libano dell’estate 2006, bersagliato dalla magistratura in almeno due processi per corruzione risalenti al periodo in cui era sindaco di Gerusalemme, il primo ministro era ormai considerato da almeno un anno politicamente finito, e inadatto ad affrontare i dossier più scottanti: dalla minaccia nucleare iraniana al negoziato con la Siria per il Golan, fino allo scambio dei prigionieri con i palestinesi.
«La notizia non è che abbia annunciato le dimissioni» ha sintetizzato il settimanale Time «ma che lo abbia fatto così tardi». Israele deve a questo punto trovare subito una via d’uscita alla crisi. Le inchieste della magistratura, che prima di Olmert avevano travolto l’ex capo dello stato Moshe Katsav (accusato di molestie sessuali) e due ministri chiave del governo, hanno distrutto la fiducia nella politica in larghe fasce dell’elettorato. La guerra tra Al Fatah e Hamas, riesplosa nell’ultimo fine settimana a Gaza con un bilancio di centinaia di feriti e 11 morti, ha rafforzato la convinzione tra gli israeliani che i colloqui con il presidente palestinese Abu Mazen siano serviti solo a rassicurare americani ed europei. La paura di un Iran nucleare si fa sempre più diffusa. Ed è in questo quadro che si apriranno il 17 settembre le primarie di Kadima, il partito fondato da Ariel Sharon dopo lo sgombero da Gaza nel 2005. La formazione, che era subito diventata la prima forza politica del paese, con Olmert in sella stava precipitando nei sondaggi.
Ora gli unici che abbiano qualche speranza di risollevare le sorti del partito, conquistandone la leadership e quindi la guida del paese, sono Tzipi Livni, ministro degli Esteri, nemica giurata di Olmert ed ex agente del Mossad a Parigi, e Shaul Mofaz, ex ministro della Difesa di Sharon e attuale capo del dicastero dei Trasporti. Entrambi provengono dalla famiglia della destra israeliana, di cui sono stati considerati per anni i figli prediletti. Ed entrambi non hanno mai nascosto le loro ambizioni da primo ministro. Ma l’ago della bilancia, in questa battaglia autunnale che si concluderà il 24 settembre, con il secondo turno delle primarie di Kadima, potrebbe essere proprio Olmert. Il premier dimissionario controlla il 20 per cento di delegati che, in odio alla Livni, potrebbe portare in dote a Mofaz, decidendo l’esito delle consultazioni e il futuro d’Israele.
Per convincere i congressisti, Livni, cresciuta in una famiglia di miliziani dell’Irgun di Menachem Begin, la più dura organizzazione della guerriglia ebraica antiinglese degli anni Quaranta, metterà sul piatto il suo appeal internazionale e la fama di donna incorruttibile e senza macchia. Mrs Onestà, l’hanno chiamata. Una fama che le varrebbe, secondo gli ultimi sondaggi, un sorpasso anche sul popolare ex premier Bibi Netanyahu, capo dell’opposizione e unico tra i principali politici israeliani che chieda le elezioni anticipate.
Mr Sicurezza Shaul Mofaz, al contrario di Livni, ha due carte da giocare: conosce meglio la macchina del partito e, da vecchio signore delle tessere, può far pesare il suo passato da capo di stato maggiore in un paese abituato ai premier con le stellette. «Lei è popolare nel paese, ma non nel partito: è difficile dire chi la spunterà» rivela Halevi. E le differenze ideologiche tra i due? Sopravvalutate. «In teoria Livni crede nella buona fede di Abu Mazen e Mofaz è più sospettoso. Ma alla fine sono entrambi d’accordo che si debbano restituire i territori. Differiscono sulla tattica, non sugli obiettivi. Livni o Mofaz cambia poco anche sulla questione dei colloqui con l’Autorità nazionale palestinese: chi potrebbe fare la pace (Hamas) non vuole, chi vuole (Al Fatah) non può» spiega il politologo. Tutti i principali leader israeliani danno inoltre quasi per scontato l’attacco all’Iran. «Sia Mofaz sia Livni vorrebbero coinvolgere il Likud in vista del blitz» conclude. Con l’eventuale bombardamento ai siti nucleari di Teheran, è difficile anche essere ottimisti sul negoziato con la Siria. Fino a ieri Damasco era disposta a firmare un accordo, grazie alla mediazione turca, che prevederebbe, in cambio del Golan, il sì al controllo israeliano del Lago di Tiberiade, grande risorsa idrica della regione. Insomma: l’incerta battaglia per la leadership dentro Kadima è solo l’antipasto del difficle periodo che potrebbe stravolgere l’intero Medio Oriente (paolo.papi@mondadori.it).
(ha collaborato Renato Coen)
Per inviare una e-mail alla redazione di Panorama cliccare sul link sottostante