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Il Foglio Rassegna Stampa
08.08.2008 Sudan: il filo rosso del fondamentalismo islamico
dall'impiccagione di Muhammad Taha ai massacri in Darfur, passando per l'11 settembre

Testata: Il Foglio
Data: 08 agosto 2008
Pagina: 3
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «IL DARFUR NON VA ALLE OLIMPIADI»
Il FOGLIO dell'8 agosto 2008 pubblica un articolo di Giulio Meotti sul Darfur.

Lo pubblichiamo, anche se non riguarda il Medio Oriente, non solo per l'importanza della drammatica situazione della regione sudanese, ma anche per l'analisi della storia recente del Sudan in relazione al fondamentalismo islamico e al terrorismo.

Di particolare interesse la rievocazione della figura di Muhammad Taha, riformatore islamico condannato a morte dal regime sudanese.

Ecco il testo:

Il villaggio di Mazkhabad era immerso nella quiete. Halima Bashir vede avvicinarsi un nugolo di uomini a cavallo, trascinavano delle bambine. “Erano le bambine della scuola”. Halima si trovava in quel villaggio da due mesi come medico. I Janjaweed avevano fucili, coltelli e frustini per cavalli. “Ci gridavano contro. ‘Siamo venuti ad uccidervi’, ‘Vi finiremo tutti’, ‘Schiavi neri’, ‘Siete peggio dei cani’, ‘Non ci saranno più schiavi neri qui’. Abusarono delle ragazze davanti a tutti, costringendoli a guardare. Ci urinarono addosso. E poi dissero: ‘Vi lasciamo vive per dire ai vostri padri e fratelli che la prossima volta non ci sarà pietà. Lasciate questa terra. Il Sudan è degli arabi. Non per i cani neri’”. Anche Halima fu violentata. I miliziani arabi gridavano: “Uccidete le scimmie nere, uccidete i cani neri, uccideteli tutti”. Il suo racconto, che un giorno troverà posto accanto alla migliore memorialistica sui khmer rossi, si intitola “Le lacrime del deserto”, e ne ha parlato il Sunday Times. Halima è una delle possibili testimoni se un giorno il Tribunale penale internazionale dell’Aia riuscirà a processare il presidente sudanese Omar al Bashir, ricercato per genocidio e crimini di guerra. Se il leader serbo- bosniaco Radovan Karadzic è già entrato nella galleria degli orrori del Novecento, per il Darfur non si è avuta la stessa partecipazione. Di piazza, emotiva, intellettuale, militare e politica. E’ una gigantesca Srebrenica dimenticata. L’anomalia è presto spiegata: il teatro della tragedia non è l’Iraq occupato dagli angloamericani, non è l’Afghanistan, non è la piccola cittadina bosniaca lacerata dai serbi cristiani. E’ il Darfur musulmano su cui non si è alzata alcuna voce scandalizzata su al Jazeera o su al Arabiya, nessuna denuncia da parte di leader musulmani nelle sedi internazionali. Il Darfur è jihad più export cinese. La Cina alimenta il conflitto garantendo forniture di armi e addestrando i piloti dei cacciabombardieri usati negli attacchi. Un’inchiesta della Bbc ha individuato autocarri carichi di armi nella regione occidentale del Sudan e si parla da mesi di piloti addestrati da Pechino per guidare i caccia cinesi Fantan A5. La Bbc ha accertato l’utilizzo di cacciabombardieri cinesi negli attacchi aerei che di solito precedono l’assalto dei Janjaweed ai villaggi del Darfur. Gli aerei cinesi precedono la pulizia etnica. Due fotografie satellitari mostrano caccia cinesi Fantan presenti all’aeroporto di Nyala, capitale del Darfur del sud, il 18 giugno scorso. Una madre di sette figli, Kaltam Abakar Mohammed, ha visto tre dei suoi bambini fatti a pezzo dopo un attacco lanciato da questo genere di velivolo. La scoperta di importanti giacimenti petroliferi ha trasformato la repressione di Khartoum in uno sterminio “protetto” dalla connivenza cinese e liberal occidentale. Un rapporto dell’Unione africana, organizzazione famosa per evitare posizioni che possano essere sgradite a questo o a quel governo, denuncia che la tecnica preferita dai janjaweedprevede di incatenare e bruciare vivi gli abitanti di sperduti villaggi. L’affarismo cinese si innesta su un atavico razzismo a sfondo religioso. Dal 1983, il governo islamista di Bashir ha dichiarato una guerra santa contro gli africani del sud, i Dinka, i Nuba e Neur. Oltre due milioni le vittime decimate. Nabil Kasseem, amica e collaboratrice del dissidente iracheno Kanan Makiya, ha girato un documentario sul “jihad a cavallo” in Darfur. Vi riporta scene di inaudita violenza e brutalità, testimonianze dirette di rifugiati e di donne stuprate davanti ai propri figli, immagini di interi villaggi distrutti dai janjaweed, il segmento audio di un dialogo tra alcuni piloti delle forze aeree dal quale si evince una strategia di coordinamento degli attachi ai villaggi. Il racconto di Halima fa il paio con quello di Dily, l’arabo sudanese che ha combattuto la guerra al grido di “uccidi gli schiavi, uccidi gli schiavi”. La sua storia, raccontata alla Bbc, è il primo comprovato resoconto delle stragi pagate, ordinate, commissionate dal governo sudanese ai janjaweed, i predoni arabi terrore del Darfur, e spesso sostenute da Pechino. Il primo e unico racconto autentico sui “demoni a cavallo” che, in tre anni, hanno massacrato decine di migliaia di loro simili in nome di una pulizia etnica imbevuta di guerra agli apostati fomentata dagli imam di Khartoum. “Avrò attaccato trenta villaggi, arrivavamo a cavallo o con i cammelli, ammazzavamo donne, uomini, bambini, bruciavamo le capanne, se alla fine qualcuno non era ancora morto, lo lasciavamo agonizzare, se non lo finivano le ferite ci pensavano fame e sete... Se sopravviveva il suo racconto diffondeva ancor più paura”. I soldati di Khartoum ci hanno messo una ventina di giorni per spiegargli come si spara con un kalashnikov, come si bruciano villaggi e vite umane. “Distruggiamo, sterminiamo, in poche ore ce ne andiamo... Se ci sono uomini armati dobbiamo fare più attenzione, studiare l’assalto, nel caso chiedere l’appoggio di Khartoum”. Succede spesso, è fra le prove a carico di Bashir. “Noi così facciamo, entriamo in groppa ai cammelli spariamo su chiunque si muova, gridiamo ‘morte agli schiavi, morte agli schiavi’, svuotiamo i caricatori nelle schiene, le maciulliamo sotto gli zoccoli dei cammelli... Sono quasi sempre donne, quasi sempre bambini, tutti civili”. Non tutti muoiono subito. “Le ragazze le portano dietro le tende, le violentano una a una, se si rifiutano le uccidono subito, altrimenti dopo”. Recentemente nuove prove degli attacchi sono emerse in 500 disegni fatti dai bambini rifugiati nel Ciad. Sono in mano alla Corte penale internazionale dell’Aia, chiamata a giudicare i responsabili dei crimini di guerra e contro l’umanità compiuti durante gli oltre quattro anni di conflitto nella regione occidentale del Sudan. I disegni mostrano case date alle fiamme in villaggi distrutti, decapitazioni, corpi senza vita in pozze di sangue, donne incatenate tra loro per essere trascinate via e decine di fosse comuni. Si vedono elicotteri, carri armati con la bandiera sudanese, militari in divisa affiancati dai janjaweeda bordo di veicoli con le mitragliatrici. Gli aggressori hanno la pelle chiara, sono arabi, le vittime hanno la pelle scura, sono africani. Sono almeno 400mila i morti e oltre 2,5 milioni di profughi e sfollati. Orde di arabi del nord e del centro del paese hanno operato razzie, distrutto villaggi, pozzi, piantagioni, allevamenti e ucciso famiglie, dilaniando vecchi, stuprando donne, abusando di bambini e bambine per poi rivenderli come schiavi nei mercati del Sudan e del medio oriente. Le prove del genocidio continuano ad affiorare. Annientamento totale della popolazione in nome di un suprematismo arabo islamista. Lo chiamano “disastro umanitario” per non voler nominare le cose. Guerra fra musulmani, razzismo arabista contro i neri. Le testimonianze raccolte da gente fuggita all’eccidio parlano di villaggi messi a ferro e fuoco e di ragazzi uccisi per difendere le mandrie. La gente si difende a mani nude o con vecchi fucili; i Janjaweed hanno mezzi sofisticati: kalashnikov, telefoni satellitari, divise, automobili, spesso fornite da Pechino. Ma il loro modo di uccidere è tipico di tutte le barbarie: donne dai seni recisi, vecchi con la testa fracassata, bambini sbattuti contro i muri. E centinaia di donne violate, deflorate con lunghi coltelli e marchiate a fuoco sulle mani. Il 27 febbraio 2004 a Tawila, in un solo giorno, i Janjaweed hanno ucciso 67 persone; 41 ragazze, assieme alle loro maestre sono state stuprate, alcune fino a quattordici volte, di fronte ai propri parenti. I Janjaweed attaccano le piccole carovane di profughi, li derubano di animali, coperte, cibo, decretano la loro morte per fame o per sete; avvelenano i pozzi e bombardano i rigagnoli d’acqua perché la sete uccida uomini e bestie. Si aggiunge l’islamizzazione forzata del paese, retto dalla sharia, che fustiga i cristiani che bevono vino, anche quello per la messa, arresta sacerdoti, perseguita vescovi, distrugge le chiese. Ovunque le donne recano sul corpo sfregi da machete. Human Rights Watch fornisce tre capi d’accusa contro Bashir: fucilazioni di massa da parte dell’esercito e della milizia; attacchi coordinati dove i governativi e i miliziani hanno un ruolo eguale; attacchi in cui le forze governative sono di supporto. Il 30 agosto 2003 i Janjaweed attaccano Mororo. “Dobbiamo spazzar via questa gente” dicono i comandanti. Iniziano le fucilazioni, come a Srebrenica. Il 9 ottobre del 2003 i villaggi dell’area di Murnei sono scenario della fucilazione di 82 persone. A Urm lanciano razzi su una moschea sufi mentre era in corso un funerale. 42 vittime. I inseguirono l’imam, Yahya Warshal, e lo uccisero sotto gli occhi del figlio. Prima di abbandonare il villaggio, i miliziani presero tutte le copie del Corano e le gettarono nel fuoco. Nessuna piazza araba si è mobilitata per il jihad nel Darfur. Human Rights Watch documenta 62 attacchi alle moschee nella sola zona di Dar Masalit. In Darfur, regione orientale del Sudan grande quasi come la Francia e abitata da sette milioni di persone, gli autori degli eccidi sono musulmani come le vittime, ma soprattutto sono arabi per lingua e cultura. Sono musulmani i fur, gli zaghawa e i massaleit che formano la spina dorsale dell’Esercito di liberazione del Sudan e del Movimento per la giustizia e l’uguaglianza, i due gruppi armati che hanno iniziato la ribellione con assalti alle installazioni militari nel febbraio 2003, come sono musulmani quasi tutti i soldati delle forze governative e i janjaweed. Dagli anni ’80 è in corso una rivolta contro l’arabizzazione. I vincitori sono le tribù arabe, i perdenti sono gli zurga, i “neri” africani. Anche le tribù arabe spesso sono formate da neri, ma a differenza delle altre parlano l’arabo come lingua madre. Le vittime sono quasi sempre musulmani pietisti, non fondamentalisti, la loro fede è devota, indomita, tollerante, contaminata da animismo. Sono carne da macello. Assassini e vittime in Darfur pregano tutti rivolta alla Mecca. Bashir appena eletto cacciò i giudici non musulmani e applicò la sharia in molte parti del paese. Ha definito “jihad” la campagna contro il Darfur. Mahgoud Hussein, portavoce dei ribelli del Sudan Liberation Movement, ha detto che uno dei loro obiettivi è la separazione di stato e moschea. “Sono musulmano anch’io, ma vogliamo che la religione sia un fatto privato e che ciascuno abbia la libertà di praticarla”. Gli ha risposto Abdul Zuma del governo di Khartoum. “La sharia si applica anche al Darfur”. All’Aia per la prima volta c’è la possibilità di giudicare la fitna, la guerra civile, interna al mondo islamico. Perché il Darfur viene dopo l’Algeria e prima dell’Iraq. E’ un litmus test. I nomi dei villaggi demoliti sono spilli doloranti. Kondoli, 44 morti; Nouri, 136 morti; Kenyu, 57 morti; Tunfuka, 26 morti; Millebeeda, 59 morti. A Mukjar, definito il “Ground Zero del Darfur”, sono state scoperte dozzine di fosse comuni. Ovunque le moschee sono state distrutte. Il jihad di Khartoum ha cercato di spazzar via il culto sufi della setta Tijaniya. Queste confraternite sufi accarezzano la santità del Profeta senza velleità teocratiche e non a caso costituiscono, oggi più che mai, la bestemmia del panarabismo armato. Sufi è una parola che rinvia alla lana (sûf) indossata dai viandanti lungo la strada che conduce alla purezza dello spirito (safâ). E’ un islam scienza del divino coltivata nell’involucro terrestre, perché nella legge religiosa individua una “scorza” (al qishr) che protegge l’essenziale, il “nocciolo” (al lubb) rappresentato dal cammino interiore verso il trono di Allah. Un antidoto alle seduzioni totalitarie del monoteismo. Gli imam di Khartoum la chiamano “apostasia”. Nel 1992 sei imam pro governativi emisero una fatwa che bollava come “infedeli” i sufi e gli animisti. “L’islam ha garantito di uccidere entrambi”. Con la stessa accusa, apostasia, fu messo a morte il riformatore islamico Muhammad Taha, nemico di Bashir e del suo ideologo Hassan al Turabi. Taha auspicava il ritorno al messaggio profetico originale dell’islam, fondò il movimento dei Fratelli repubblicani in opposizione ai fondamentalisti Fratelli musulmani che hanno ispirato le bande janjaweed. Taha è l’anti Qutb, padre fondatore del moderno jihadismo. Taha fu giustiziato per aver protestato contro l’imposizione della sharia da parte del presidente Jafar al Nimeiri. Il suo libro più importante, “Il secondo messaggio dell’islam”, uscì nel 1967 con la dedica “all’umanità”. Taha vi afferma la visione dei “primi musulmani” che proposero “un islam devoto, caritatevole e coesistente con gli altri”. Durante gli anni roventi dell’islamismo, Taha formulò un messaggio coraggioso e di quietas. Si è anche scritto che se fosse prevalsa la sua visione teologica e non quella di Qutb, non ci sarebbe stato l’11 settembre. Di certo, non avremmo avuto il genocidio in Darfur. Quando la botola si aprì sotto i piedi di Taha, la folla gridò “Allahu Akbar! Islam huwa al hall”, Allah è grande e l’islam è la soluzione. I suoi libri furono bruciati in piazza. Come le copie del Corano in Darfur. Aveva osato dire che la sharia è un’“alterazione del vero islam”, la sua uccisione innescò quel gorgo di violenza di cui sono espressione i janjaweed. La verità di questa Srebrenica dimenticata, insieme a tutte le sue fosse comuni, è tutta da scoprire. Bisognerebbe cominciare dagli scritti e dalla vicenda di Mohammed Taha. Il Gandhi dell’islam. Lì forse c’è la chiave per capire.

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