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La Stampa Rassegna Stampa
08.08.2008 La memoria e la rimozione della Shoah al centro del nuovo film del regista israeliano Amos Gitai
priemiato a Locarno per la carriera

Testata: La Stampa
Data: 08 agosto 2008
Pagina: 45
Autore: Alessandra Levantesi
Titolo: «Gitai: che sogno la Moreau nel mio film»
Da La STAMPA dellì8 agosto 2008:

Sarà che è venuto al Festival a ricevere il Pardo d’onore, premio che lo pone sullo stesso piedistallo di maestri quali Oliveira, Olmi, Godard, Loach, Kiarostami. Sarà che la sua ultima pellicola, Plus tard tu comprendras (presentato in Piazza Grande), gira intorno al tema del non detto, ovvero sulla rimozione dell’orrore dell’Olocausto da parte dei sopravvissuti. Fatto sta che a Locarno l’israeliano Amos Gitai, regista di notoria vis polemica, si è mostrato insolitamente pacato, per esempio glissando sulla decisione del collega Spielberg di disertare Pechino: «Di un regista esiste il suo lavoro e la sua personalità pubblica. Questo secondo aspetto non mi interessa». Ma, pur stemperando i toni, Gitai non ha ammorbidito i contenuti, sempre densi e controcorrente com’è nello stile dei suoi film, i quali in patria suscitano spesso reazioni irritate: «È logico, succede sempre quando il cinema tocca punti nevralgici».
Nelle misure prese da taluni in Europa contro l’immigrazione vede riaffacciarsi lo spettro di un nuovo razzismo? «In Europa non sono state realizzate abbastanza pellicole su questo problema. Non parlo di film “a messaggio”, perché il politicamente corretto lo ritengo un avvelenamento del pensiero. La vera funzione del cinema è sollevare temi forti, ma deve farlo sul piano del linguaggio artistico che è ambiguo, critico, mai demagogico. Io dico che se il cinema focalizza nel modo giusto certi problemi, nessun governo potrà permettersi di ignorarli».
Il nuovo film ha ambientazione francese e ispirazione letteraria, da un libro di Jérome Clément, come Plus tard tu comprendras. Come mai? «Un regista deve occuparsi innanzitutto della realtà a cui appartiene. Ho lavorato sull’identità israeliana, ora mi sento pronto a tornare alle origini, alla storia dei miei genitori, al periodo buio che hanno attraversato, alla diaspora, al rapporto fra ebrei e non ebrei. Il mio è un film sulla cancellazione della memoria, dove appunto una madre, Jeanne Moreau, preferisce sino alla fine non parlare al figlio Hippolyte Girardot degli orrori vissuti. È stata un po’ una scommessa svelare l’incubo senza mostrarlo».
La Moreau qui è straordinaria: «Sappiamo cosa significa la Moreau, è un’icona, ha lavorato con i più grandi, da Buñuel ad Antonioni. Ora che ha compiuto gli 80 bada all’essenziale, vuole fare solo le cose che contano, per un regista averla è un sogno, un regalo». Che cosa pensa di Barenboim e della sua orchestra multietnica di pace? «È una cosa bellissima, l’unione attraverso l’arte è ancora più significativa che nella vita. Anch’io mi sono trovato a utilizzare elementi arabi nei miei set. Credo molto nei rapporti a tu per tu, li ritengo più importanti di tanti discorsi politici».

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