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Avvenire Rassegna Stampa
07.08.2008 Di chi è la colpa se a Gaza le discariche non funzionano ?
Barbara Uglietti non ha dubbi, di Israele

Testata: Avvenire
Data: 07 agosto 2008
Pagina: 3
Autore: Barbara Uglietti
Titolo: ««Discarica» Gaza»
Chi è responsabile dell'incapacità di chi controlla la striscia di Gaza (Hamas) di garantire un efficiente smaltimento dei rifiuti ? Barbara Uglietti, che firma un reportage pubblicato da AVVENIRE del 7 agosto 2008, non ha dubbio l'"assedio" con il quale Israele si difende dal terrorismo.

A Gaza, notoriamente, entrano medicine, cibo, carburante. Hamas, se volesse, potrebbe costruire anche discariche. La verità è che non se ne preoccupa. Si preoccupa invece di accumulare armi per la guerra a Israele e di regolare ne frattempo i conti con Fatah. Perché AVVENIRE non dedica una pagina come quella di oggi a informare i suoi lettori delle violazioni dei diritti umani da parte di Hamas, denunciate da Human Rights Watch (non certo un'organizzazione filoisraeliana... ) o di come Hamas sfrutti il cessate il fuoco per rafforzare il suo apparato terroristico , o, ancora dello scandalo delle mancate visite della Croce Rossa a Gilad Shalit, il soldato israeliano sequestrato da Hamas ?

Ecco il testo:


L a Striscia di Gaza è una delle aree a più alta densità abitativa del mondo: un mi­lione e mezzo di palestinesi vivono su u­na superficie di 360 chilometri quadrati e da un anno non possono più nemmeno uscirne (le restrizioni israeliane su Hamas). Mangia­no, dormono, studiano e lavorano (quelli che possono). E, inevitabilmente, producono spazzatura. Rifiuti “speciali” perché anch’es­si sottoposti a embargo: lì nascono, lì restano. Misteriosamente, non sulle strade.
  I palestinesi non sono più bravi dei napoleta­ni: non hanno inventato strategie alternative per riciclare l’irriciclabile, non hanno futuri­stici sistemi di compostaggio, non spedisco­no i rifiuti su Marte. Molto più semplicemen­te, stanno seduti su una immensa
discarica: una gigantesca pattu­miera a cielo aperto che sta pro­ducendo la più pericolosa arma chimica di distruzione di massa. L’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) in giugno ha diffuso un rapporto (Health Sector Sur­veillance Indicators, vedi box) che evidenzia la drammaticità della si­tuazione sanitaria a Gaza. I dati (re­lativi ad aprile e maggio) parlano di una costante crescita dei fattori di rischio per la popolazione. L’ap­pello è rimasto sostanzialmente i­nascoltato.
 
L’inquinamento a Gaza non ri­sparmia nulla: terra, acqua e aria sono contaminate da sostanze po­tenzialmente devastanti. La situa­zione più grave riguarda i liquami tossici. L’Autorità dell’Acqua di Ga­za (Costal Municipality Water Uti­lity - Cmwu) è l’ente che si occupa di fornire acqua potabile a tutti i residente del­la Striscia (più di 130 milioni di metri cubi al­l’anno) e anche di provvedere al trattamento di quella di rifiuto (in cui si trasforma l’80% dell’acqua potabile fornita). L’impianto di trat­tamento delle acque di rifiuto deve funzio­nare per almeno 14 giorni consecutivi per completare il suo ciclo. Il problema è che a Gaza l’energia elettrica per 14 giorni conse­cutivi non c’è mai, perché è fortemente ra­zionata dall’ottobre scorso, quando le autorità israeliane hanno deciso di introdurre pesan­ti tagli come misura di pressione su Hamas. Il risultato è che i responsabili della Cmwu dal­l’inizio dell’anno sono obbligati a versare quo­tidianamente 60 milioni di litri di acque di scolo nel Mediterraneo: acque solo parzial­mente trattate o non trattate del tutto. «E il dato peggiora continuamente – spiegano al­l’ufficio di Gerusalemme dell’Ocha, l’agenzia dell’Onu per gli Affari umanitari –. Adesso sti­miamo sia salito a 66 milioni di litri. Lungo la spiaggia, le chiazze scure sono ormai perfet­tamente visibili». Le correnti portano i liqua­mi a nord, e dunque verso il sud di Israele, nell’area di Ashkelon. Ma lì le spiagge sono chiuse per via dei Qassam (la cittadina, insie­me a Sderot, è il bersaglio preferito dei razzi palestinesi). E gli israeliani hanno comunque sistemi di depurazione e desalinizzazione del- l’acqua molto avanzati. Soprattutto, sosten­gono di fare «tutto il possibile» per evitare que­sta situazione e comunque ritengono di ave­re altre priorità (vedi articolo a fianco).
  Ci sono progetti a lungo termine per costrui­re tre nuovi impianti di trattamento delle ac­que reflue per l’intera Striscia di Gaza (a Nord est di Gaza City, vicino al campo di el-Bureij e vicino a Khan Yunis). Uno di questi, realiz­zato in collaborazione con il governo tedesco per un costo tra i 7 e i 15 milioni di dollari, a­vrebbe dovuto partire alla fine di aprile. Ma I­sraele, denuncia l’Ocha, non permette il pas­saggio di materiali e attrezzature (sempre a causa delle restrizioni), così i progetti restano fermi.
  Problemi molto grossi ci sono anche per for­nire l’acqua potabile. Da Gaza, Maher Najar, vice-direttore della Cmwu, spiega che la si­tuazione, nonostante un leggero migliora­mento nelle ultime settimane (dopo la firma della tregua con Israele, il 19 giugno), è dav­vero difficile. «Cerchiamo di risparmiare sul­l’elettricità per far funzionare quanto più pos­sibile le pompe dell’acqua e gli impianti di de­salinizzazione – dice Najar –. Non bastasse, la mancanza di pezzi di ricambio ci impedisce di dosare la cloridazione dell’acqua, opera­zione necessaria per renderla potabile. Il ri­sultato di tutto questo è che attualmente il
30% della popolazione che non riceve acqua anche per tre-quattro giorni di fila». Che fan­no? «Aspettano. O la comperano».
  La cosa non va meglio con l’aria. Mancando, a causa dell’embargo israeliano, il normale combustibile per motori, i palestinesi conti­nuano a utilizzare olio da cucina per far fun­zionare macchine e taxi. «Da mesi, ormai, Ga­za sa di patatine fritte andate a male», rac­conta Motasem Dalloul, giornalista indipen­dente di Gaza City. «E non è solo questione di puzza – aggiunge mostrando un rapporto ri­lasciato in maggio dal Dipartimento di chi­mica dell’Università Islamica di Gaza –: bru­ciare biocombustibile provoca l’emissione di tossine e molecole di acidi grassi insaturi che sono considerati estremamente pericolosi per il corpo umano». Motasem spiega che in pri­mavera, quando la storia dell’olio da cucina è cominciata, per qualche giorno la gente ha girato con i fazzoletti sulla bocca. «Poi – con­clude laconico – il rischio di ammalarsi pre­cocemente di cancro è entrato nell’incredibi­le ordine delle cose “normali” che possono accadere se vivi sotto assedio».
  La mancanza di carburante tiene anche fer­mi camion per i rifiuti: 1.000-1.200 tonnella­te di spazzatura al giorno, il 65% delle quali di materia organica (Dati del ministero della sa­lute per il Governatorato di Gaza). Il servizio
di raccolta dovrebbe essere garantito dalle sin­gole municipalità (aiutate in questo dal­l’Unrwa, l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati pa­lestinesi, che si occupa della raccolta nei cam­pi profughi). Ma senza mezzi, tutto si com­plica. I palestinesi si sono così inventati un porta a porta utilizzando asini, carretti e qual­che ruspa. Le distanze da percorrere, fortu­natamente, sono relativamente brevi. La spaz­zatura viene smistata in tre discariche: una a nord, una nella parte centrale dell’enclave, u­na a sud. Un recente rapporto dell’Oms de­nuncia la necessità di costruire nuove. Ma, ci risiamo, la chiusura dei confini impedisce l’in­gresso di materiali e attrezzatura per edifi­carle. Così, le tre discariche, prive di qualsi­voglia manutenzione, finiscono per inquina­re il terreno. Che inquina la falda. Che inqui­na l’acqua. Che inquina l’aria. A modo suo, un perfetto ciclo ambientale. Peccato funzio­ni al contrario.

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