La filosofia ebraica Shlomo Pinès
a cura di Paolo Lucca
introduzione di Giuliano Tamani
Morcelliana Euro 10,50
Una laurea a Berlino, presa in un anno fatidico, il 1938, e una fuga dall’Europa appena in tempo, nel 1940. La prima metà della vita di Shlomo Pinès, classe 1908, scorre nel mondo inquieto del giudaismo del Vecchio continente. I suoi venivano dalla Bielorussia e si erano trasferiti in Francia in cerca di fortuna e promozione sociale. Studi solidi e una fede incrollabile, nonostante tutto, nelle virtù positive – o meglio positivistiche – della cultura;: Pinès è stato uno degli ultimi eredi della scuola ottocentesca della Wissenchaft des Judentums, ispirata alle regole ferree del razionalismo e della filologia. Anche dopo essere emigrato in Israele, nei lunghi anni del suo magistero all’università di Gerusalemme, questo professore dai modi un po’ schivi continuò ad applicare il metodo di maestri come Steinschneider e Graetz. Più erudito che filosofo, Pinès era per certi versi un anti-Sholem, anche se dal grande e terribile berlinese lo distingueva più il temperamento che non la formazione. Tra i due non correva certo molta simpatia, e lo si vede anche dal breve saggio su “La filosofia ebraica”, pubblicato per la prima volta nel 1967 e ora proposto in italiano dalla Morcelliana. Qui Scholem non viene citato neppure una volta, e la qabbalah è liquidata in poco più di una pagina.
Il cuore filosofico di Pinès batte altrove, nell’aristotelismo di Maimonide, nella lucida e tagliente ragione di Spinoza, o ancora nel sogno illuministico di Mendelssohn. L’assennata prosa dello studioso dà il meglio nella ricostruzione delle linee fondamentali del filosofare ebraico. Pinès è convinto sostenitore della teoria dei tre grandi incontri tra filosofia e mondo giudaico: il primo in epoca ellenistica, con Filone Alessandrino per protagonista; il secondo in età medievale, grazie alla Koinè araba e all’influsso della teologia islamica; il terzo a partire dal Settecento, e fecondo soprattutto nella cultura tedesca.
Nonostante il carattere divulgativo del testo, Pinès sa offrire spunti che tradiscono la sua vastissima competenza specialistica, come quando accosta il pensiero medievale di Saadia Gaon a scritti filosofici indiani sulle fonti di conoscenza (promana), oppure quando ricama di fino sul parallelo tra il Gesù di Spinoza e la figura di Mosè in Maimonide.
Meno entusiasmante è la trattazione dei filosofi ebrei del Rinascimento, con qualche riga appena per Leone Ebreo e un cenno affrettato a Elia Del Medigo. Ma si sa che la filosofia italiana, ed ebraico-italiana, tra Quattrocento e Cinquecento è tradizionalmente la Cenerentola di queste rassegne generali.
In compenso, i pensatori venuti dal giudaismo tedesco hanno ampio spazio, da Solomon Formstecher (emulo di Schelling), a Samuel Hirsch (seguace di Hegel), al neokantiano Hermann Cohen, fino al celebre binomio Franz Rosenzweig/Martin Buber.
Con Buber, morto nel 1965, si arresta anche la trattazione di Pinès. In effetti, quello che nel pensiero ebraico è avvenuto dopo appartiene a un altro capitolo, se possibile ancor più concitato e nervoso.
Giulio Busi
Il Sole 24 ore