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La Stampa Rassegna Stampa
06.08.2008 Abu Qbeita non è "l'ultimo dei mohicani"
e la presenza araba in Cisgiordania non è certo a rischio

Testata: La Stampa
Data: 06 agosto 2008
Pagina: 15
Autore: Francesca Paci
Titolo: «L'ultimo dei mohicani di Hebron»

Gli ebrei che vivono in  Cisgordania sono sotto la costante minaccia del terrorismo che li vuole uccidere.
Ad Abu Qbeita, che vive in quella che per il governo israeliano è una struttura illegale, in una "enclave circondata dai coloni", vive "senza luce né tubature idrauliche", in causa presso l'Alta corte di Israele.

L'articolo di Francesca Paci a lui dedicato lo definisce l'"ultimo dei mohicani", espresione infelice, dato che la popolazione araba in Cisgiordania non è certo a rischio di estinzione,  prontamente ripresa per il titolo.

 Secondo la scheda storica  riassuntiva la presenza ebriaca a Hebron sarebbe iniziata dopo il 1967, perché nel 48 la città l'aveva scampata, non era stata toccata dalla "Nakba" (Catastrofe, così la propaganda araba definisce la nascita di Israele)
Millenni di storia e i sanguinosi pogrom del 29 e del 36 sono del tutto dimenticati.

Di seguito, la scheda:

 L'arrivo de i coloni
1948
La «Nakba», o «Disastro»
La sconfitta e ritiro dei palestinesi. Non tocca però Hebron, 25 mila persone, che rimane araba. A Yatta vivevano un migliaio di palestinesi.
1963
La Guerra dei Sei giorni
Inizia l’espansione d’Israele in Cisgiordania. I Coloni fondano Qiryat Arba. Hebron aveva 38 mila abitanti; in centro entrano 700 ebrei.
2008
45 colonie israeliane a Sud
Il Muro protegge le colonie a sud fino a Mezadot Yehuda, 60 km da Gerusalemme. Hebron ha 130 mila abitanti. Qiryat Arba 7mila, Yatta 48 mila.

L'articolo di Francesca Paci, che riportiamo più sotto, registra almeno, correttamente, la posizione israeliana. Solo su Abu Qbeita, però. Le affermazioni di ong e attivisti filopalestinesi sulla barriera difensiva non ricevono nessuna replica.

L'effetto complessivo dell'intera pagina  è comunque di disinformazione totale.

La foto che riproduciamo ha lato ha la seguente didascalia

Spesso le case degli altri palestinesi della sua provincia (di Abu Qbeita, ndr) sono al centro degli scontri tra bulldozer israeliani e le donne arabe armate di pietre

Si noti l'indeterminatezza di tempo e di luogo ("spesso", "nella sua provincia"): la didascalia non fa riferimento a nessun episodio specifico, non fornisce informazioni, ma crea una suggestione. Per la quale i cattivi israeliani sistematicamente demoliscono case palestinesi, e i loro possenti bulldozer sono affrontati da "donne arabe armate di pietre".

Osservando attentamente l'immagine sorgono poi molti dubbi sulla sua autenticità, accompagnati dal sospetto che le donne arabe siano state messe in posa a lanciare pietre a un bulldozer vuoto.

Ecco il testo dell'articolo di Francesca Paci:

Abu Qbeita Land, la terra di abu Qbeita, come la chiamano i volontari delle Nazioni Unite, comincia subito dopo il «check point» di Beit Yatir, 30 chilometri a sud di Hebron, estremo lembo della Cisgiordania meridionale, una collina dietro l’altra di pietre e stoppie gialle. La jeep con la scritta UN, la sola autorizzata a oltrepassare il posto di blocco israeliano, s’arrampica sullo sterrato fino alle capanne con il tetto di latta tra cui brucano una ventina di capre. Dieci metri più in là, il reticolato che delimita l’insediamento ebraico di Mezadot Yehuda e la turbina eolica. Ahmad abu Qbeita abita qui con i suoi 5 figli, ultimo dei Mohicani, ostinato a non cedere al «nemico» neppure un «dunum», un decimo di ettaro, a costo di vivere così, senza luce né tubature idrauliche, in una enclave circondata dai coloni.
«Abu Qbeita è un caso estremo, ma ci sono migliaia di palestinesi intrappolati tra la linea del 1967 e il muro terminato 2 anni fa» spiega Andrea Parisi, cooperante del Gvc, ong di Bologna che con i fondi europei ha comprato alla famiglia una piccola autobotte. Sulla cartina risultano in territorio palestinese, ma la barriera difensiva antikamikaze degli Israeliani li taglia fuori. Secondo Ocha, ufficio Coordinamento degli affari umanitari Onu, un problema simile riguarda l’intera valle del Giordano, 85 mila persone dipendenti dalla pastorizia che dal 2006 non hanno accesso ai pascoli e alle cisterne tradizionali e devono comprare macchinari, foraggio, acqua. Molti migrano, incalzati dalla siccità. Il vecchio abu Qbeita no.
«Sono nato tra questi sassi 80 anni fa, prima della creazione d'Israele» ricorda seduto sotto la tenda tirata tra un fico e un melograno. Dal ramo penzolano uno specchio e una spazzola. Con il bastone da pastore indica l’edificio bianco al di là dei cavalli di frisia su cui sventola da bandiera con la stella di David: «Fino al 1967 era una stazione della polizia giordana, l’avevano comprata da mio padre nel 1950. Poi arrivarono i militari israeliani, occuparono la struttura, demolirono le nostre case». Nel 1984 un’avanguardia di pionieri fonda l’insediamento di Mezadot Yehuda, nucleo originario dei 500 abitanti attuali. Poco a poco i palestinesi della zona vendono i poderi e si spostano nel villaggio di Imnezeil o a Yatta, dove risiedono due delle 3 mogli di Ahmad abu Qbeita. Lui non ne vuol sapere. Quando i nuovi vicini si allargano, invadendo 10 dei suoi dunum, si rivolge all'Alta Corte israeliana: è in causa da 17 anni.
«All’inizio gli israeliani ci offrirono altre sistemazioni, campi, perfino un assegno in bianco» continua l’uomo. Tre ragazzini con i calzoni corti lo ascoltano, occhioni neri intenti, gambe punteggiate da punture d'insetti. «Quanti ne abbiamo? Quanti nipoti abbiamo, Anna?» domanda alla terza moglie del primogenito Ibrahim, urlando in direzione della tenda riservata alle donne. Loro ridono, mostrando i denti rovinati, e contano: «Tredici». Tredici bambini, una famiglia di 48 persone, due soli stipendi, quello di Ibrahim e del fratello Mohammed che lavorano saltuariamente come edili in Israele e portano a casa 1500 shekel al mese, circa 300 euro. Il resto è zucchine, cipolle, fichi, formaggio di capra essiccato nelle grotte dove uomini e animali dormono insieme, come nei Sassi di Matera negli Anni 50.
I furgoni delle agenzie umanitarie internazionali, che portano cibo e aiuti ai palestinesi in Cisgiordania e Gaza, non sono ammessi qui: il «check point» s’apre solo per lasciar passare i Qbeita che fanno la spola con Imnezeil per pregare in moschea, portare i figli a scuola, acquistare l’acqua che, con i costi di trasporto, diventa 6 volte più cara di quanto non sia per un impiegato di Hebron.
«Abu Qbeita Land» aveva una cisterna, una volta. Ma, documenta il centro studi palestinese «Land Research Center», venne demolita dagli israeliani nel 2006. Il vecchio Ahmed mostra un cumulo di macerie: «Le conservo come prova», dice. Ma l’amministrazione civile di Giudea e Samaria, come Israele definisce la Cisgiordania, respinge l’accusa: «La famiglia abu Qbeita non ha diritto di lamentarsi perchè vive in una struttura illegale, in una zona non destinata all’uso abitativo». Secondo la portavoce Miki Galin, finchè Ahmed e i suoi figli hanno lavorato i loro appezzamenti non c’è stato alcun problema: «Negli ultimi 3 anni hanno cominciato a costruire senza il permesso delle autorità civili e hanno costretto il nostro ufficio a prendere i provvedimenti previsti dalla legge».
Ismail, 10 anni, accovacciato sulla stuoia accanto al nonno, smonta e rimonta la vecchia radio Grundig a pile che ha raccontato la guerra del 1973, la prima e la seconda intifada. «La televisione non ci serve» dice Ahmad. Cavi elettrici, da questa parte del reticolato, non ce ne sono. I familiari, il nonno e i nipoti irriducibili che non tornano a dormire a Yatta, si riuniscono la sera intorno al generatore donato da una Ong locale. «Un paio d’ore e poi andiamo a letto, mica come quelli là che hanno la tv e tutti i comfort». Parla dei coloni? Ahmad abu Qbeita scuote la testa e beve un lungo sorso di té. I figli annuiscono. Il vecchio, stavolta, non ce l’ha con i vicini di Mezadot Yehuda ma con Mahmoud, il cugino che abita nella baracca un pò più in là. «Un collaborazionista» taglia corto. Lavorano senza parlarsi la stessa abu Qbeita Land, tra le macerie d’una vita e i rifiuti gettati dalle finestre delle case protette dai cavalli di frisia.

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