|
|
||
Diario di un’adultera Curt LeviantTraduzione di Irene Abigail Piccinini
Guanda Euro 18,50
Chi è Aviva? Una donna di mezza età invecchiata troppo in fretta, o una ragazza nel fiore degli anni? Il suo nome, che in ebraico significa “primavera”, propende per la seconda ipotesi, le rughe decisamente per la prima. E poi: è erotomane o frigida? Femme fatale o jewish princess – cioè smorfiosetta? E’ un’artista incompresa o una mediocre violoncellista?
Certo è che quasi nulla lascia immaginare la fine, in Diario di un’adultera (l’ultimo romanzo di Curt Leviant appena tradotto in italiano per Guanda da Irene Abigail Piccinini – e tanto di cappello: le evidenti imperfezioni del testo sono rese con garbo e brio). Il titolo stesso è una specie di depistaggio, povera Aviva. Ad ogni buon conto, questo lungo – forse troppo – romanzo è il disegno di una relazione complessa fra Aviva e Guido, che in effetti è il suo amante, e Charlie, che è l’amico del secondo e lo psicologo (nonché l’improvvisato allievo) della prima, ma anche fra loro e l’Arabo, tanto per dirne uno, e Teresa, e Ava, e Pam.
Guido e Charlie si ritrovano a una cena di classe. Sono ex allievi di una scuola ebraica per soli maschi di Brooklyn, ormai hanno passato – così come i loro compagni – i quaranta, e ciascuno è andato per la propria strada. Guido, ad esempio, sta dietro alla fotografia e alle donne. Dei protagonisti è forse il meno riuscito, il più inafferrabile non per la sua enigmaticità, ma per i confini smussati che Leviant gli assegna. Non è misterioso, è solo un po’ vago. Charlie, che invece sta sempre dietro le quinte, è decisamente più presente nella storia.
Storia? Beh, non proprio. Queste quasi settecento pagine, corredate di una gradevole appendice di “delizie e sorprese ordinate alfabeticamente” è, più che una storia, il ritratto del rapporto tra Aviva e Guido, visto da diverse angolature. Spesso dal cuscino di un letto, perché Diario di un’adultera si spaccia anche per romanzo erotico. In realtà non lo è: le scene di sesso, il frasario sboccato, rimandano un sorriso al lettore, più che un brivido di piacere (o di nostalgia). E’ un eros scanzonato, quasi distratto, quello che abita sotto le lenzuola di questo libro. In compenso, è proprio nelle sue parti, diciamo così, licenziose, che il romanzo si fa divertimento, svago – per il lettore e per i suoi, più o meno arrapati, protagonisti.
L’altro coté divertente, che ripaga di una certa ridondanza e ripetitività, è il repertorio di allusioni ebraiche. Non a caso la parte forse migliore sta nell’inizio, nella rievocazione fra compagni di scuola. Quando Leviant ci mette un pizzico di witz, di humour, senza cercare effetti speciali, il romanzo prende il volo.
Elena Loewenthal
Tuttolibri – La Stampa
|
Condividi sui social network: |
|
Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui |