I sopravvissuti di Buchenwald un reportage di Marco Ansaldo e Mila Rathaus Sachs
Testata: La Repubblica Data: 03 agosto 2008 Pagina: 30 Autore: Marco Ansaldo e Mila Rathaus Sachs Titolo: «I sopravvissuti della foto-schock»
Da La REPUBBLICA del 3 agosto 2008:
«Nel momento in cui ci inquadravano ho pensato: guardo verso la macchina fotografica, oppure no? È bene che mi vedano? O è bene che non mi riconoscano? Perché nei lager non sapevi mai esattamente che cosa fare. Alla fine decisi: guardo dritto in avanti. Ecco perché sono il solo a non girare la testa verso l´obiettivo». C´è una foto molto nota impressa nella mente di tutti coloro che ricordano i campi di concentramento nazisti. Fu scattata la sera del 15 aprile 1945 dagli uomini del generale Patton, appena entrati a Buchenwald. Mostrava quel che gli alleati trovarono dentro le baracche. Corpi ammassati sui soppalchi. Occhi spenti. Ciotole vuote usate come cuscini. In piedi un uomo, le costole sporgenti in evidenza mentre copre la sua nudità con una divisa a righe. Era la foto di gruppo del Blocco 56. E divenne l´emblema della vita nei lager. A sessantatré anni da quella foto, tre degli uomini immortalati allora sono ancora vivi. Il bambino con i capelli rasati lungo le tempie, il più piccolo della baracca, che sdraiato sul terzo ripiano guarda davanti a sé, è Naftali Fürst. All´epoca aveva dodici anni, oggi ne ha settantacinque e vive a Haifa, nel nord di Israele. Due piani sotto di lui, tutto pelle e ossa, supino, c´è Max Hamburger, allora venticinquenne, adesso residente in Belgio, ottantotto anni. In primo piano sulla sinistra compare il volto emaciato di Nicholas Gruener, quindicenne, oggi settantotto anni, abitante in Svezia. I tre si sono di recente incontrati per la prima volta da allora. Repubblica, che ha trovato nell´archivio nazista di Bad Arolsen, in Germania, i loro dossier e gliene ha fornito le copie, ha però individuato anche un quarto protagonista di quella foto tuttora in vita. Si tratta di Yozek Angel, il ragazzo con gli occhi chiari nella prima fila in alto, il terzo da sinistra. Oggi ha ottantasei anni e vive sulle alture del Golan. È Naftali Fürst, un uomo alto e gentile, a ricordare ogni particolare di quella vicenda nel salotto al diciassettesimo piano del suo appartamento che domina Haifa. «Per me la miseria è quando la gente non ha da mangiare - dice con un sorriso - io mi sento a posto con una fetta di pane e una cipolla, il cibo non mi preoccupa. E anche la paura non mi spaventa. L´Olocausto mi ha fatto resistente, stabile, incapace di lamentarmi. La fortuna mi ha dato dei genitori straordinari che mi hanno insegnato ad adattarmi. "Qualunque cosa succeda - ci diceva nostro padre - noi dobbiamo superarla". Era una specie di ordine, capace però di infonderci speranza». «Juraj-Naftali Fürst», com´è scritto nel dossier ingiallito compilato dalle Ss, è nato nell´anno in cui Hitler andò al potere. A Bratislava, nel 1933 la vita scorreva tranquillamente e l´azienda di famiglia prosperava nel commercio del legno. Per gli standard del tempo, Arthur, il padre, era considerato un capitalista: automobile, telefono, cuoca, un´istitutrice per i figli Shmuel e Naftali. «Vivevamo in un paradiso», ricorda quest´ultimo. Cinque anni dopo, la loro vita fu sconvolta. La Germania si annetté l´Austria, e nella vicina Slovacchia agli ebrei fu impedita la residenza nelle città. In dieci giorni i Fürst furono costretti ad abbandonare la casa e l´azienda. Al campo di Sered, settanta chilometri dalla capitale, Naftali venne messo in falegnameria. Una mattina, mentre piallava un cavallo di legno, davanti a lui si fermò un gruppo di ufficiali guidato da Adolf Eichmann e dal suo vice Alois Brunner, responsabile della deportazione dalla Slovacchia, oggi ancora ricercato in Siria. Per alcuni minuti esaminarono il lavoro del bambino, poi proseguirono l´ispezione. Fürst rammenta con un brivido quando tutta la famiglia si trovò di fronte a Brunner, nello spiazzo dell´appello. Dopo ore passate in piedi, il gerarca si avvicinò proprio a loro, li osservò attentamente e disse: «È vero che siete Mischlingen (sangue misto, ndr)?». Shmuel riuscì a rispondere: «Sì, siamo Mischlingen e non sappiamo perché ci tengano qui da tanto tempo». Brunner pensò che l´assenza del padre potesse significare una sola cosa: che non era stato arrestato perché ariano; e diede ordine affinché la madre e i due bambini venissero trasferiti nella parte di campo dei cosiddetti "protetti". Ma la nonna, sessant´anni, fu lasciata sul piazzale e mandata allo sterminio la notte stessa. «Fu come il giudizio di Salomone - sospira Fürst - l´esperienza di un momento che rimane con te tutta la vita. Mia madre fino alla fine dei suoi giorni provò la sensazione di avere sacrificato sua mamma». Anche il padre fu infine catturato, e la famiglia intera venne deportata ad Auschwitz. Fürst non dimentica quel viaggio: ottanta persone dentro un vagone bestiame chiuso. Un tempo interminabile. «Arrivammo che era quasi notte. C´era buio, freddo, cani che abbaiavano ed Ss che gridavano: "Heraus, heraus. Schnell, schnell". Il fumo usciva dai crematori. Non sapevamo se saremmo stati uccisi, e come. Avevo sentito parlare delle camere a gas, ma quella morte l´immaginavo come l´immersione in una piscina da cui non si esce più». Gli viene tatuato il numero, 14026b, che adesso porta sul braccio nudo e che ritrova scritto, immergendosi curioso e assorto, nei documenti che lo riguardano rimasti sepolti per sessant´anni nell´archivio in Germania. Viene inviato assieme al fratello Shmuel al kinderblock, il blocco dei bambini, usato come "serbatoio": quando mancavano i candidati alle docce della morte, il numero prestabilito veniva comunque raggiunto con i più piccoli, in buona parte malati o già morenti. «La mattina venivano portati fuori i cadaveri. La notte invece, era il tempo dei ladri. Tutto poteva essere rubato: la coperta, la fetta di pane, la camicia. I bambini che sprofondavano in un sonno troppo profondo si svegliavano senza vestiti». Quando l´Armata Rossa si fa più vicina, i tedeschi decidono di spostare gli internati. Nel gelo, i prigionieri vengono avviati a marce sfinenti. Molti cadono, altri finiscono impiccati agli alberi. «Mentre camminavamo, mio fratello e io ripetevamo quello che papà ci diceva sempre: "Dobbiamo farcela, dobbiamo andare avanti"». Raggiunta Breslau, capitale storica della Bassa Slesia, oggi in Polonia, tutti di nuovo sul carro bestiame. I morti in un angolo del vagone. «Quando il treno si fermava, qualcuno riusciva ad arrivare alla locomotiva per prendere un po´ di acqua calda e far sciogliere un cubetto di margarina». A Buchenwald comincia la selezione per i campi-satellite. Shmuel deve trasferirsi. Naftali è destinato a restare nel lager principale. I due però non vogliono separarsi. Vengono a sapere che nel blocco accanto ci sono altri due fratelli nella stessa situazione. Il più vecchio propone a Shmuel uno scambio di identità e parte con il fratello per la nuova destinazione. La sera stessa, gli aerei alleati bombardano il convoglio e i due rimangono uccisi. Malato di polmonite, con la febbre alta e in preda alle allucinazioni, Naftali finisce nel bordello del campo. «All´inizio mi ero spaventato, non sapevo che cosa fosse un casino. Pensavo che si trattasse di un posto non ordinato, qualcosa dove regna la confusione. Sulla porta stavano in piedi due donne, molto belle. Erano vestite e truccate pesantemente. Mi spaventai ancora di più. Pensavo che volessero usarci come cavie, come aveva fatto il dottor Mengele ad Auschwitz». Naftali entra e sente una di loro dire: «Così biondo, peccato che sia piccolo». All´interno ci sono altre donne ben vestite. E poi mobili, tappeti, lampade, tutte cose che gli ricordano l´abitazione paterna abbandonata sette anni prima. Ben presto capisce che si tratta della "casa chiusa" del campo, usata dai kapo e dagli altri prominenten. Ma qui i ragazzi malati vengono ospitati in una grande sala, ci sono persino i materassi. Naftali riceve un pigiama strappato, a strisce rosse: «Mi sentivo come uscito da un pozzo nero e arrivato al palazzo reale». Il medico gli estrae con un´enorme siringa il liquido dai polmoni. Lui comincia a riprendersi. Le donne lo coccolano, gli danno da mangiare dolci e cioccolato. L´11 aprile, mentre gli echi degli spari giungono fino al reticolato, i tedeschi svaniscono: «Sono stato liberato nel bordello di Buchenwald», ride oggi Fürst. Armato di pane e cioccolata, il ragazzo va a cercare il fratello. Non lo trova: la sera prima Shmuel aveva lasciato il campo. Naftali si unisce allora alla banda di bambini abbandonati che vaga per il lager deserto: scoprono le celle della tortura, frugano nei depositi dei vestiti, passano accanto al crematorio, si imbattono in un ammasso di cadaveri pronto per essere bruciato. «Ero un dodicenne nel parco dell´orrore», dice allargando le braccia. Cercano disperatamente del cibo, e dove passare la notte. A sera, Naftali arriva al Block 56. Si sistema nel soppalco in alto, perché quello inferiore è riservato ai morenti. Lì incontra Nicholas e Max. Rivoltano le ciotole del cibo, le ricoprono di stracci imbottendole per trasformarle in cuscini. Sono passate le cinque quando dalla porta entrano sei-sette americani. Li mettono in posa. Sistemano uno straccio davanti all´uomo nudo in primo piano. Scattano la fotografia. «Subito dopo andammo a dormire. Nel lager avevamo imparato a essere pratici. Non pensavamo certo a che cosa sarebbe diventata più tardi quell´immagine». La mattina dopo i prigionieri vengono organizzati in gruppi. I cecoslovacchi sono fatti salire su un camion e portati a Bratislava. Lì Naftali ritrova il padre, la madre e il fratello. La storia, in un insolito impeto di generosità, aveva risparmiato tutta la sua famiglia.
Un articolo su Elie Wiesel, che si è riconosciuto nella foto:
«sì, è vero, sono io». Nella foto-simbolo scattata dai soldati americani nel lager di Buchenwald, gli uomini rimasti in vita ancora oggi non sono solo i quattro di cui si parla nell´articolo qui accanto. Ce n´è un quinto, celebre in tutto il mondo: il premio Nobel per la pace Elie Wiesel. In passato, alcuni giornali israeliani avevano ventilato l´ipotesi che il volto magro nella seconda fila dal basso, il settimo da sinistra, potesse essere quello dello scrittore de La Notte. E molti siti riportano tuttora accanto al suo nome la foto di Buchenwald. Ma senza mai una chiara ammissione da parte di Wiesel, come se l´essere stato catturato in quell´immagine potesse quasi imbarazzarlo. Molti "si dice" anche fra gli esperti di storia della Shoah. Ma nessuna certezza. Perché Wiesel, che pure tanto ha scritto sull´Olocausto, non ha mai voluto parlare della foto emblematica del male che l´uomo può fare al suo simile? Un nostro primo tentativo diretto con lo scrittore è andato a vuoto. Naftali Fürst, il superstite che qui racconta la storia della foto di Buchenwald, dice che non tutte le persone raffigurate si conoscevano. «Wiesel - spiega - si è sempre rifiutato categoricamente di parlarne. E quando alcuni anni fa ci siamo incontrati a New York, non sono riuscito a ottenere né una conferma né una smentita». Lo stesso per il primo editore italiano del Nobel, il fiorentino Daniel Vogelmann (figlio del tipografo salvato da Schindler, Schulim), anch´egli sicuro della presenza di Wiesel in quella foto ma senza una prova. Persino i parenti di Wiesel che vivono in Israele, i cugini Hollander, affermano di non aver mai sentito parlare della possibilità che il loro celebre familiare vi comparisse. E se le biografie non autorizzate (come in Wikipedia) o ufficiose (come quella dell´American Academy of Achievement, un´organizzazione prestigiosa con cui Wiesel collabora da anni) danno per sicuro che il Nobel sia uno dei prigionieri ritratti nella fotografia di Henry Miller, l´unica biografia ufficiale in rete, quella nel sito della Wiesel Foundation for Humanity, non ne fa per nulla cenno. La conferma ufficiale, alla fine, è arrivata dal Museo dello Yad Vashem a Gerusalemme, cui Repubblica si è rivolta. Le ricerche dell´istituzione hanno portato all´identificazione di un certo numero di persone nella foto, fra cui, come attesta il loro rapporto, «nel secondo soppalco dal basso, settimo da sinistra: Elie Wiesel». Forti di questa conferma abbiamo inviato una seconda richiesta allo scrittore, che oggi vive a New York, e abbiamo ricevuto, per mail, la risposta definitiva: «Sì, è vero, sono io». Senza ulteriori commenti, come se anche soltanto ricordare quella storia gli provocasse una pena enorme. Scriveva Wiesel, nel racconto autobiografico La Notte, a proposito della terribile esperienza a Buchenwald: «Io volevo vedermi allo specchio [...] Non mi ero più visto dopo il ghetto. Dal fondo dello specchio, mi guardò un cadavere. Lo sguardo nei suoi occhi, come guardavano dentro i miei, non mi lascia più».
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