Dubai, capitale economica degli Emirati Arabi un reportage di Francesca Paci
Testata: La Stampa Data: 29 luglio 2008 Pagina: 8 Autore: Francesca Paci Titolo: «Dubai, Las Vegas di sabbia e neve»
Da La STAMPA del 29 luglio 2008:
Sunil si sfila i guanti imbottiti, tira fuori il portafoglio dalla giacca a vento e ordina tre cioccolate calde, una fetta di strudel e una SevenUp per il figlio minore Amita, l'unico della famiglia indifferente alle specialità invernali del bar St.Moritz nonostante il naso rosso congestionato dal freddo. La neve è assai più insolita per lui, originario di Goa, che per la coppia di Berlino appena planata a valle dopo lo slalom con lo snowboard. Ma qui, nel cuore di Dubai, la Las Vegas del deserto, sciare o gareggiare con lo slittino è un'esperienza singolare per tutti. Turisti europei e americani, sceicchi con il piumino d'oca nero sulla lunga jallaba bianca che giocano come i pretini del grande fotografo italiano Mario Giacomelli sotto lo sguardo divertito delle mogli velate da capo a piedi, lavoratori immigrati che, per 150 dirham, circa 30 euro, il salario d'una giornata in cantiere, donano ai figli l'avventura in seggiovia. Sky Dubai, la montagna artificiale da 6000 tonnellate di neve inaugurata nel 2006 all'interno del centro commerciale Emirates, svetta sulla distesa di sabbia alla periferia sud-ovest della città, orizzonte da pionieri dove fino a dieci anni fa sorgevano, solitarie, le tende beduine. Chi è interessato al deserto primitivo farà bene a sbrigarsi: lo skyline, orgoglio della capitale economica degli Emirati Arabi, avanza nell'entroterra spinto da centinaia di gru che in meno di mezzo secolo hanno mutato un'arcipelago di villaggi da 150 mila anime in una metropoli dieci volte più popolosa. «In Nepal vivevo con trenta dollari al mese, emigrare è stata una fortuna» racconta Jinto, l'autista della Arabian Adventure, mentre il fuoristrada, diretto alla riserva di Margham per un safari tra le dune, attraversa il futuro. Ai lati della Emirates Road, la strada per l'oasi di Al Ein, migliaia di suoi connazionali, indiani, pakistani, lavorano sulle impalcature tappezzate di pubblicità, Six Flags, Universal, City of Arabia. Oggi è un cantiere, poco più di un sogno: nel 2010 sarà Dubailand, il divertimentificio grande quanto Disneyland e Disneyworld, 55 hotel, 300 mila impiegati, 200 mila visitatori al giorno, l'autodromo e il parco Ferrari che con 250 mila metri quadrati di piste sono già leggenda tra i fans della Formula 1. «E' come affondare nella neve calda» esclama Zhou, 23 anni, avanguardia del turismo cinese, dopo la prima lezione di sandboarding, una scivolata tra le dune con la tavola da surf. I genitori lo aspettano sulla spiaggia del Royal Mirage davanti alla minore delle Palm Islands, le due isole artificiali in contruzione: 40 gradi all'ombra, mare turchese sotto il cielo pallido, un cameriere srilankese dedito alla pulitura degli occhiali da sole. Zhou ha preferito il safari nel far west mediorientale, dove il coetaneo Ahmad Al Monsur si è appena sposato insieme a altre 349 coppie, «nozze di massa» per ammortizzare la spesa del matrimonio tradizionale, un party con tende beduine e danza del ventre da 60 mila euro. Il deserto resta la frontiera esotica dove ammirare il tramonto dimentichi della foresta di grattaceli dominata dal Burj Dubai, l'albergo a forma di vela più alto e costoso del mondo, lontana appena 40 chilometri. E la stessa guida sembra un ottovolante sulla sabbia, sgonfiate le ruote della jeep, salite mozzafiato, discese a planare sulle dune rosse. «L'International Dubai Airport registra 15 mila visti d'entrata al giorno tra turisti e lavoratori» calcola il direttore dell'Ufficio visti, Salah Bin Saloum. Roma dista sei ore, Londra sette, Hong Kong otto, New York tredici: nello scalo più trafficato del Medio Oriente atterra un aereo ogni tre minuti. E' la scommessa vinta dallo sceicco Maktoum bin Rashid al Maktoum e dal successore Mohammed. All'inizio degli anni 90 Maktoum capì che il petrolio non sarebbe durato in eterno e, alla sua morte, delegò la messa a punto dell'intuizione al figlio, il cui volto da duro di film western campeggia sui manifesti lungo Sheik Zayed road, la strada a 14 corsie che percorre Dubai. Secondo la Camera di Commercio l'oro nero soddisfa oggi appena il 6 per cento del prodotto interno lordo contro il 49 per cento del turismo. Lola Brende, 22 anni, studentessa del Missouri, siede con le amiche al Tonino Lamborghini Caffè, un locale che ammicca al famoso marchio italiano. Emergono ora dalla full immersion nei templi dello shopping, l'Emirates e il Times Square: «Vacanza significa mare, relax, una passeggiata fresca al centro commerciale». Hanno comprato una paio di All Stars, due felpe Nike e un cammello di peluche al suk dell'Emirates, unica concessione al folklore locale. Il centro commerciale è l'erede, geneticamente modificato, del suk, il mercato, il centro della città araba di cui resta traccia sulle sponde del creek. «Il Festival dello Shopping rappresenta l'ambizione del nostro popolo» nota Laila Suhai, direttrice del Festival, sorta di megahappening degno di Andy Warhol che attira ogni anno tre milioni di curiosi. «A Dubai mi sento sicuro» afferma il californiano Phil Twyman bevendo una Corona sulla terrazza del Bahari Bar, cupole da Mille e una notte sullo sfondo di due torri gemelle, copia del Chrysler di New York. Osama bin Laden è lontano anni luce da qui e i lampi della jihad, la guerra santa contro l'Occidente proclamata dagli islamisti radicali, si perdono tra le luci della metropoli. L'arabo non è la lingua ostile di Al Qaeda ma quella del beduino che, sotto lauto compenso, ha promesso di mostrare a Phil un gioiello della tecnologia, il fantino-robot telecomandato che guida il suo cammello nelle gare da quando le organizzazioni per i diritti umani hanno vietato l'impiego dei bambini. Quasi una bella nevicata nel deserto
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