Il Comitato olimpico rifiuta la squadra dell'Iraq libero ma accolse Uday Hussein, torturatore di atleti
Testata: Il Foglio Data: 29 luglio 2008 Pagina: 1 Autore: la redazione Titolo: «L’ingiustizia olimpica contro l’Iraq»
Da Il FOGLIO del 29 luglio 2008:
Roma. Era giorno di stragi ieri in Iraq. Oltre 50 i morti. Massacrati i pellegrini sciiti in una processione al mausoleo a Baghdad dell’imam Moussa al Kadhimi, mentre a Kirkuk i kamikaze hanno fatto strage durante una manifestazione politica. Proprio ora che la democrazia irachena sembra in grado di liberarsi dall’abbraccio fatale del jihadismo, il Comitato olimpico ha deciso che gli atleti iracheni non possono partecipare alla competizione ospitata dalla Cina. La chiamano “interferenza politica”. Nei fatti, significa deprimere l’inesorabile ripresa della vita in Iraq dopo anni di guerra settaria e di campagne terroristiche. La decisione del Comitato non fu adottata né contemplata nel 2000, quando la squadra irachena era tiranneggiata dal pluriomicida Uday Hussein. E non è stata declinata quest’anno per Cuba, Nord Corea, Zimbabwe, Iran o Arabia Saudita, paesi di gran lunga meno liberi dell’Iraq. Quest’ultimo è la terza nazione nella storia delle Olimpiadi a essere esclusa per una decisione del Comitato, dopo il Sud Africa dell’apartheid e l’Afghanistan dei Talebani. Sebbene l’Iraq sia uno stato democratico, libero, multiconfessionale e l’esperimento di pluralismo islamico di maggior successo assieme alla Turchia e all’Indonesia. La portavoce della Casa Bianca, Dana Perino, si è scagliata contro la decisione. “Perché il Comitato non è intervenuto quando Uday torturava gli atleti?”, ha chiesto il deputato Mithal al Alousi, a cui i terroristi hanno ucciso due figli quando fece ritorno da Israele. Il figlio di Saddam Hussein torturava i calciatori, costretti a colpire un pallone di pietra. I baroni dello sport hanno abbandonato l’Iraq con la sua straordinaria schiera di sportivi sopravvissuti a fucilazioni, attentati, alla pulizia etnica e all’inquisizione islamista. Ieri il Washington Post denunciava l’ipocrisia olimpica. Non li vedremo a Pechino i due canottieri, Haider Nawzad e Hamza Hussein, che si allenano nel Tigri, il fiume che attraversa Baghdad e da cui per mesi affioravano cadaveri di iracheni. Al Qaida considera un oltraggio che donne come Dana Hussein Abdul Razzaq, la bella velocista di ventuno anni senza velo e l’unica donna della squadra irachena, sia presente alle Olimpiadi. Quando era in allenamento sulla pista dell’Università di Baghdad le pallottole l’hanno quasi uccisa. “Chi lo sa se sarò viva nel 2012?”, ha commentato alla notizia dell’esclusione. Sono oltre 100 gli atleti iracheni assassinati. E’ stato giustamente fatto notare che ad Atene 2004 l’Iraq si presentò con 40 atleti e quello era “l’Iraq della speranza”, a un anno dalla caduta di Saddam. Quello di Pechino 2008 sarebbe stato “l’Iraq dei sopravvissuti”, sette atleti-simbolo di un paese che ha sconfitto l’oppressione. Il presidente del Comitato olimpico, il sunnita Ahmed al Samarrai, nel 2006 fu rapito durante una conferenza a Baghdad assieme a tre membri del Consiglio. Di lui si è persa ogni traccia. Un giorno Saddam vide la giavellottista Hmdia Ahmed in sella a un cavallo e le offrì un lavoro come “bagnina” personale per la sue piscine. Hmdia accettò, perché se non l’avesse fatto, l’avrebbero impiccata. Afram Jabbar, tecnico della squadra lottatori sconfitta in una gara ufficiale juniores, fu rapato a zero con un coltello da cucina e frustato per volere dello psicotico Uday. I sette atleti hanno continuato ad allenarsi in un paese dove i tennisti sono stati assassinati perché “colpevoli” di indossare i pantaloncini corti. Dove gli atleti di taekwondo al Qaeda li ha ammazzati nel deserto al rientro in bus dalla Giordania. A Pechino non ci sarà l’arciere Ali Adnan: si è allenato per quattro anni tra le palme dell’Università Mustansiriyah, teatro di rapimenti di massa. Nel 2006 fu vittima di un attentato di al Qaida. In un paese dove i terroristi spediscono a morire le donne disabili, sarebbe stato bello vedere Zekra Zaki alzare i pesi, prima atleta disabile nella storia irachena. Peggio della follia terroristica, è l’ipocrito moralismo dei burocrati dello sport. Il “we’re still in Baghdad” di Dana Hussein è la miglior risposta all’odioso boicottaggio. Certi soloni delle Olimpiadi sono indegni di allacciarle persino le scarpe.
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