Da La REPUBBLICA del 28 luglio 2008, un'intervista al filosofo Alain Badiou, che propone un paragone insostenibile e assurdo tra Sarkozy e Petain e tra gli ebrei deportati dalla Francia collaborazionista e "gli immigrati che vivono nelle periferie", gli uni e gli altri "designati come gruppo sociale pericoloso".
Ecco il testo completo:
Piccoli libri suscitano a volte grandi clamori. È successo in Francia ad un pamphlet intitolato Sarkozy: di che cosa è il nome? (Cronopio, pagg.130, euro 10), le cui dense pagine contengono una critica senza concessioni del sarkozysmo, ma anche una riflessione stringente sulla crisi della democrazia e sulle possibili forme dell´antagonismo politico oggi. L´autore è Alain Badiou, filosofo molto noto in Francia, ma anche in Italia, professore dell´Ecole Normale Supérieure di Parigi, i cui libri di solito restano confinati nella cerchia ristretta degli addetti ai lavori. Questa volta, complice la congiuntura politica, le sue tesi radicali hanno invece conosciuto un vasto successo e suscitato innumerevoli discussioni, dimostrando che il binomio filosofia e politica può essere ancora produttivo. «La filosofia non mi ha mai impedito di essere un militante, anzi più volte ho denunciato la fuga degli intellettuali dalla vita politica», spiega lo studioso autore di numerosi saggi, tra cui anche Il secolo (Feltrinelli), Etica. Saggio sulla coscienza del male (Cronopio) e Inestetica (Mimesis). «Naturalmente, i filosofi non creano i conflitti sociali o le rivolte politiche, ma con il loro lavoro specifico contribuiscono a mettere in relazione situazioni particolari con riflessioni più generali sull´uomo, la libertà, l´uguaglianza, le tradizioni politiche, la diversità delle culture. In questo senso, mi considero un intellettuale che interviene politicamente.»
Si tratta di interpretare il mondo per fornire strumenti al corpo sociale?
«Il filosofo contribuisce alla lettura del mondo, ma nella pratica aiuta a orientare le battaglie particolari verso processi più generali. L´esempio classico è quello di Marx, la cui cultura era filosofica. Da un lato, egli sosteneva le rivolte degli operai parigini, dall´altro elaborava una visione dello sviluppo della storia al cui interno integrava queste battaglie particolari».
Per Sartre le parole sono armi. È d´accordo?
«Certamente. In politica, la questione delle parole e di come si nominano le cose è sempre un problema essenziale. Le parole fanno sempre parte della politica, anche quando il loro uso sembra perfettamente innocente. Da diversi anni, ad esempio, invece di parlare di capitalismo, parliamo di economia di mercato. Sembra una cosa da nulla, ma così si rimuove la valenza negativa che in passato era associata alla parola capitalismo. "Economia di mercato" è un´espressione meno forte, più accettabile».
Nel libro su Sarkozy lei denuncia che la morale si sostituisce alla politica. Che cosa vuol dire?
«È un processo in corso dalla fine degli anni Settanta. A poco a poco, abbiamo rinunciato a elaborare una critica politica della storia e della società, lasciando sempre più spazio alla critica morale. Il giudizio fondato sulle categorie del male e del bene ha sostituito l´analisi politica. Il grande problema contemporaneo è diventato la lotta del bene contro il male. Ma questa è una visione moralistica e religiosa della realtà, non una visione politica. Oltretutto, la sostituzione della morale alla politica è, in fin dei conti, sempre al servizio dei rapporti di forza esistenti, dato che, al di là del giudizio morale, non rimette in discussione nulla. Quindi, la sostituzione generalizzata della morale alla politica ha consolidato il capitalismo globale oggi dominante».
Rimettere la politica al centro della riflessione intellettuale per lei significa combattere il "Pétainismo trascendentale" della Francia. Che cosa intende con questa espressione?
«L´elezione di Sarkozy è il simbolo più evidente di una situazione che minaccia pericolosamente la tradizione critica e progressista della Francia. Tale minaccia è il risultato di una tendenza di fondo, che, con l´elezione di Sarkozy, ha superato una soglia simbolica. Non dico che Sarkozy sia come Pétain, ma solo che il suo successo elettorale rappresenta la vittoria di una corrente reazionaria presente in Francia da molto tempo. Il nostro, infatti, è il paese dei diritti dell´uomo e della rivoluzione, ma anche il paese di una forma di reazione, i cui tratti erano particolarmente visibili negli anni di Pétain. Tratti che oggi ritornano, benché adattati al contesto contemporaneo».
Quali sarebbero?
«Innanzitutto l´idea di una crisi morale da cui occorre risollevarsi. Poi la designazione di un gruppo sociale pericoloso che deve essere sorvegliato e controllato: per Pétain erano gli ebrei, per Sarkozy gli immigrati che vivono nelle periferie. Un altro elemento importante è la volontà di sradicare l´eredità di un avvenimento passato percepito come fortemente negativo: per Pétain era l´esperienza del fronte popolare, per Sarkozy l´eredità del 68. Da ultimo, conta anche la sensazione di essere in ritardo rispetto ai più importanti modelli stranieri: per Pétain erano i grandi stati fascisti degli anni Trenta, mentre per Sarkozy il modello da inseguire è quello del capitalismo anglosassone. Tutti questi elementi si combinano insieme in un sentimento di decadenza nazionale, a cui diventa necessario reagire con forza e senza incertezze».
È la paura il combustibile che alimenta queste forme di reazione?
«Certo. Da diversi anni, la maggior parte della popolazione francese è dominata dalla paura. Paura della disoccupazione, della globalizzazione, delle tensioni internazionali, dell´Europa, degli immigrati, dei giovani, ecc. Sono paure che nascono dall´incertezza di fronte al futuro. La Francia ha un grande passato, è stata una potenza imperiale e militare. Oggi però tutto ciò è alle spalle. I francesi non sanno più cosa aspettarsi dall´avvenire, non sanno se potranno conservare i loro privilegi e se continueranno ad avere un ruolo internazionale. La loro soggettività politica, invece di essere creativa, è dominata dalla paura e dal ripiegamento su se stessi. Di conseguenza, le idee politiche che vincono sono idee reazionarie».
Partendo dalla situazione francese, lei sottolinea i limiti delle democrazie a suffragio universale, ricordando che non si può giudicare un principio indipendentemente da ciò che produce. È così?
«La questione della democrazia non può essere ridotta alla semplice questione del suffragio universale. Hitler è andato al potere grazie a elezioni democratiche, quindi la democrazia è capace del meglio come del peggio. Al di là del suffragio universale, la democrazia esiste quando un popolo è mobilitato attorno a una politica. Il mondo oggi non è più quello del XIX secolo, le strutture economiche e sociali sono radicalmente cambiate. In questo contesto, la democrazia parlamentare non funziona più come dovrebbe. Molto spesso diventa una copertura per un potere oligarchico, costituito da potentati economici e mediatici che sono i veri padroni della società. Di fronte questa situazione dobbiamo saper inventare nuove forme di partecipazione democratica, in un contesto dove il problema fondamentale è quello del controllo dei mezzi di comunicazione più ancora dei mezzi di produzione. Se non riusciremo a risolvere il problema, la democrazie occidentali continueranno ad indebolirsi».
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