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Il Manifesto Rassegna Stampa
26.07.2008 Buon riso fa buon sangue
quando si legge Giuliana Sgrena

Testata: Il Manifesto
Data: 26 luglio 2008
Pagina: 3
Autore: Giuliana Sgrena
Titolo: «Tariq Aziz rinnegato»

Vale sempre il detto " buon riso fa buon sangue ", e l'articolo su Tariq Aziz di Giuliana Sgrena sul MANIFESTO di oggi, 26/07/2008 a pag.3., dal titolo " Tariq Aziz rinnegato " ne è esempio sublime. Cattivo il papa, che nell'incontro con al Maliki sembra non averne parlato, cattivo l'Iraq, un paese nel quale <La vita non ha più nessun valore >, il che fa pensare che , quando c'era Saddam, ne avesse. Di buono c'è solo Tariq Aziz, poco importa che insieme al n°1 abbia gasato miglia di curdi, che abbia ucciso 42 commercianti. come riporta lo stesso quotidiano comunista - perchè rei di aver maggiorato i prezzi. Un atto di per sè riprovevole, ma ci chiediamo sgomenti se per la Sgrena e il MANIFESTO sia un reato da punire con la morte. Da non dimenticare al momento del voto. Curiosi, questo comunisti, smaniano per salvare la vita ad un criminale come Tariq Aziz, sono contro la pena di morte, firmano gli appelli, ma quando Saddam & Aziz massacravano, se ne stavano ben zitti. Tralasciamo di commentare il resto, lasciandolo al piacere dei nostri lettori. Che peccato che in Italia non ci sia una legge che proibisca il pagamento del riscatto in caso di rapimento. Forse la Sgrena sarebbe ancora là, con il capo adornato di un grazioso foulard, fra quelli che lei ha sempre giudicato i suoi grandi amici.

Ecco l'articolo: 

 La democrazia non si costruisce sulla forca. L’impiccagione di Saddam Hussein dopo un processo sommario ha pregiudicato fortemente tutto il processo di democratizzazione dell’Iraq. Il prossimo a finire sul patibolo, purtroppo, temiamo sarà Tareq Aziz.Nonostante lamobilitazione portata avanti a livello internazionale dal Partito radicale - anche con lo sciopero della fame di Pannella - che ha avuto numerose e importanti adesioni.Ma la vita di Tareq Aziz, la figura più presentabile del regime di Saddam Hussein, ricevuto da papa Wojtyla nel 2003 alla vigilia della guerra di Bush contro l’Iraq, non sembra contare per il successore di Giampaolo II, Benedetto XVI. Il rischio della condanna amorte che corre Tareq Aziz, esponente cristiano del regime di Saddam, non è stato sollevato da Ratzinger durante l’incontro avuto ieri con il premier iracheno Nuri al Maliki, lo ha confermato l’ambasciatore iracheno presso la santa sede, Albert Edward Ismail Jelda. Evidentemente quando al Maliki ha rassicurato il papa sull’impegno del suo governo per aiutare e proteggere la comunità cristiana in Iraq, come ha fatto con il suo ospite a Castelgandolfo, escludeva alcuni cristiani. La vita non ha più nessun valore in Iraq e sembra non averla neppure per il papa,masoprattutto per gli iracheni, anche quelli al potere, visto che si sono meravigliati della mobilitazione in Italia per salvare Tareq Aziz. Ali Aldabbagh, portavoce del governo di Baghdad, ha espresso stupore per la mobilitazione a favore di una «simile persona che ha partecipato a un governo brutale che ha ucciso migliaia di iracheni innocenti». Non siamo certo indifferenti alle migliaia, centinaia dimigliaia di iracheni morti sotto il regime di Saddam Hussein, nella guerra contro l’Iran, sotto l’embargo e durante l’invasione e l’occupazione di Bush, perché per noi la vita umana ha un valore che nessuna colpa, nemmeno la più grave, può cancellare. E, visti i precedenti, non ci rassicura l’affermazione del ministro degli interni iracheno, Jawad Khadum al Bulani, che l’Iraq è un paese «che aspira a rispettare la legalità e la costituzione irachena, e quindi cercheremo di operare nell’ambito delle linee guida». Nuri al Maliki ha invitato il papa in Iraq perché la sua visita potrebbe aiutare il processo di riconciliazione. Ma di quale riconciliazione parla? E quale paese troverebbe Ratzinger? «La situazione ora è chiaramente peggiore» rispetto ai tempi di Saddam Hussein, sostieneMansour, che vive in Siria con oltre un milione di profughi iracheni, dove è fuggito dopo essere stato rapito e aver pagato 30.000 dollari per il riscatto. Mansour è uno dei tanti rapiti per convincere la famiglia a convertirsi all’islam. E’ andata peggio a due donne sabee che abbiamo incontrato qualchemese fa a Damasco: per non essersi convertite all’islam sono state rapite e stuprate ripetutamente. Sono solo alcuni esempi. Cui si aggiungono molti cristiani uccisi perché vendevano alcolici o per il semplice fatto di essere cristiani in un paese in gran parte sotto il controllo delle milizie sciite, espressione armata anche dei partiti al governo. Nel quartiere di Dora a Baghdad la scorsa estate è stata emessa una fatwa che chiedeva alle 2.000 famiglie cristiane residenti di convertirsi all’islam. Molte di queste famiglie sono rimaste senza capofamiglia, alcuni uccisi, molti altri sequestrati che, nonostante il pagamento di riscatti, non hanno fatto ritorno a casa. Tra i rapiti che hanno perso la vita vi è anche l’arcivescovo di Mosul, Paulos Faraj Raho. Molte le chiese bombardate. «La situazione è la più difficile che abbiano mai vissuto i cristiani in Iraq. Probabilmente nella storia. Nonè mai stato come ora», ha dichiarato il reverendo Canon Andrew White, il vicario di Baghdad, in una intervista alla tv americana Cbs. Anche i dati lo dimostrano: di circa 1,2milioni (su 25milioni di abitanti) di cristiani presenti in Iraq ai tempi di Saddam ne sono rimasti la metà. Gli altri sono fuggiti, chi ha potuto ha raggiunto i parenti negli Stati uniti, in Europa o in Australia,ma lamaggior parte sopravvive tra i profughi in Siria o in Giordania. Anche all’interno dell’Iraq vi è stato un esodo dal sud sciita verso Mosul, dove è insediata la più consistente comunità dei caldei. Non è migliore la situazione degli assiri nelle zone a maggioranza kurda. Tanto che, nella pulizia etnico- confessionale che impera in Iraq, c’è chi è arrivato a teorizzare, come Nina Shea dell’americana Commissione per la libertà di religione, la creazione nella zona di Niniveh (la provincia di Mosul) di una regione autonoma dove cristiani e altre minoranze religiose possano praticare la loro fede, parlare la loro lingua e lavorare in tranquillità.

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