Chi erano gli autori dei libri bruciati dai nazisti un volume ricorda le loro storie
Testata: La Repubblica Data: 25 luglio 2008 Pagina: 43 Autore: Paola Sorge Titolo: «Quei libri dati alle fiamme»
Da La REPUBBLICA del 25 luglio 2008:
Tutto doveva esser fatto rapidamente, con la velocità del vento. L´ordine perentorio di bruciare gli scritti di autori ebrei «in occasione della vergognosa campagna diffamatoria del mondo ebraico contro la Germania», non proveniva da Goebbels o da Hitler, ma dal novello ufficio stampa e propaganda dell´associazione studentesca tedesca che in meno di un mese, dal 12 aprile al 10 maggio del 1933, organizzò alacremente e sistematicamente il rogo dei libri proibiti non solo a Berlino ma in ogni città universitaria della Germania. Gli studenti dovevano innanzitutto «ripulire» i propri scaffali, quelli di parenti e conoscenti e poi quelli di tutte le librerie possibili; il rogo sulle pubbliche piazze doveva essere reclamizzato e promosso a dovere, possibilmente con testi di propaganda «contro il distruttivo spirito ebraico» redatti da scrittori compiacenti. Non mancava nemmeno una sorta di manifesto studentesco con 12 tesi aberranti tra cui quella che recitava: «L´ebreo che scrive in tedesco, mente». Ed infine ecco le fiamme alte 10, 12 metri che la notte di mercoledì 10 maggio illuminarono l´Opernplatz a Berlino, gremita di folla che assisteva allo spettacolo. E nessuno che protestava. C´era Goebbels attorniato dalle SA in soprabito chiaro che contemplò a lungo l´incendio e poi annunciò «la fine dell´epoca di un eccessivo intellettualismo ebreo». Erich Kaestner vide i suoi libri gettati alle fiamme mentre qualcuno faceva il suo nome e urlava «contro la decadenza e il degrado morale!» e che da allora, da beniamino del pubblico divenne «persona non gradita». Kaestner fu uno dei pochi scrittori della lista nera che rimase in patria come «cronista», forse perché gli mancava il coraggio di emigrare. Altri si tolsero la vita o vennero uccisi in un lager, oppure andarono all´estero, il più delle volte senza mezzi e senza possibilità di pubblicare le loro opere. E quando dopo la fine della guerra tornarono in patria, non trovarono la Germania di prima, non si sentirono più «a casa»: il pubblico li aveva irrimediabilmente dimenticati. Eppure nella Repubblica di Weimar avevano tutti goduto di una notevole notorietà. Ernst Glaeser, ad esempio, con Classe 1902, un ritratto della sua generazione ancor oggi più che godibile, aveva suscitato l´entusiasmo di Hemingway; Edlef Koeppen era diventato notissimo nel ‘28 con il suo romanzo Bollettino di guerra; un certo seguito lo avevano avuto anche gli anarchici ribelli come Rudolf Geist che scrisse migliaia di pagine e alla fine andò di porta in porta a vendere cartoline con le sue poesie; c´erano i comunisti «di cuore», senza la tessera di partito ma sempre dalla parte dei deboli e degli oppressi come Oskar Maria Graf o come Egon Erwin Kisch, straordinario reporter e corrispondente di guerra che andò in esilio in Messico e morì nel ‘48; grande risonanza avevano avuto i cronisti della cultura ebraica in Germania come Georg Hermann, ucciso a Auschwitz nel ‘43 e biografi di talento come Franz Blei, re dei caffè viennesi, autore di quel Bestiarum Literaricum definito da Kafka «la letteratura mondiale in mutande». La loro storia e quella di tutti i 94 scrittori tedeschi i cui libri furono dati alle fiamme 75 anni fa, assieme a quelli di 37 autori stranieri, sono raccontate in un libro prezioso, per molti versi stupefacente: Il libro dei libri bruciati (Volker Weidermann: Das Buch der verbrannten Buecher, ed. Kiepenheuer & Witsch, pagg. 255) Stupefacente perché l´appassionata e appassionante ricerca fatta dall´autore del volume su internet e nelle librerie antiquarie ha portato alla scoperta di opere di notevole valore da allora dimenticate a causa del rogo dei libri. Prezioso perché contiene le storie inedite, spesso tragiche e inquietanti di tutti gli intellettuali perseguitati dal regime nazista e perché rende giustizia agli scrittori dimenticati o ignorati ai quali viene dato molto più spazio che a quelli celebri. Senza questo libro l´obiettivo dei nazisti di cancellare per sempre dalla memoria i nomi di tanti autori ebrei sarebbe stato quasi raggiunto, osserva giustamente l´autore del libro nella sua introduzione. «Non si faccia illusioni. L´inferno è al governo», scrisse Josef Roth già nel febbraio del ‘33 all´amico Stefan Zweig che faticava a credere di essere diventato uno degli scrittori più odiati in Germania. I suoi libri erano stati dati alle fiamme assieme a quelli di Werfel, di Schnitzel, di Wassermann, di Klaus Mann, ma lui, lo scrittore di lingua tedesca più letto nel mondo, era convinto di essere stato scambiato con Arnold Zweig, comunista militante odiato dal regime. Cercò compromessi, sperò che la follia collettiva avesse termine rapidamente. Roth al contrario aveva capito immediatamente che la loro vita professionale e materiale era annientata. Alla fine entrambi andarono in esilio e entrambi vi persero la vita: Roth morì in un ospedale di Parigi nel ‘39, Zweig tre anni dopo si tolse la vita in Brasile. Coinvolgenti e di estremo interesse sono le storie di tutti gli scrittori sinora dimenticati a causa del rogo: sconcertante quella di Armin T. Wegner che dopo la guerra era stato dato per morto e che invece visse sino al 1978 a Positano dove si era trasferito nel ‘36. Autore di un avventuroso e fascinoso libro di viaggi, Al crocevia dei mondi del 1930, moralista e nemico della guerra, scrisse nell´aprile del ‘33 una lettera aperta a Hitler in cui con incredibile ingenuità spiegava al Führer perché la Germania avesse bisogno degli ebrei e perché gli ebrei amassero tanto la Germania. In realtà non aveva nessuna voglia di lasciare la sua patria: «Andar via è come morire» ripeteva. Ma la Gestapo lo mise in carcere, lo torturò, lo mandò nel lager di Oranienburg da dove riuscì a fuggire. A Positano stava ogni giorno alla scrivania davanti a una pila di fogli bianchi. Non riuscì mai più a scrivere un rigo. Con il grandioso romanzo satirico Solneman l´invisibile del 1914, tenuto in gran conto da Thomas Mann, lo scrittore Alexander Moritz Frey riscosse il suo primo grande successo; ebbe però per sua disgrazia, anche un altro ammiratore, Adolf Hitler, suo compagno di reggimento nella prima guerra mondiale. Il futuro Führer mostrava molto interesse per le sue opere e cercò inutilmente di mettersi in contatto con lui, ma Frey lo evitava accuratamente: lui era rigorosamente contro ogni odio di razza, contro ogni fanatismo, contro i militari. «Voglio, voglio, voglio dire la verità, voglio dire: i militari e la guerra sono la più ridicola, vergognosa, stupida cattiveria del mondo», afferma alla fine del racconto delle sue esperienze di guerra, uscito nel ‘29 e giudicato dai critici addirittura superiore al celebre All´ovest niente di nuovo di Remarque. Nel ‘33 le SA gli distrussero casa e Frey lasciò la Germania senza soldi, senza la possibilità di pubblicare i suoi lavori, senza più cittadinanza; in Svizzera trovò il sostegno e l´aiuto di Thomas Mann. Morì a Basilea nel 1957, povero e dimenticato. Certamente il più fortunato di tutti fu Erich Maria Remarque. La notte del rogo lui, che si trovava al sicuro in Ticino, sentì per radio, con lo scrittore Emil Ludwig, il crepitio delle fiamme e i discorsi esaltati dei gerarchi nazisti. Era stato uno dei primi a emigrare: il 29 gennaio, alla vigilia della presa di potere di Hitler, aveva fatto una corsa non stop, a bordo della sua Lancia, da Berlino a Porto Ronco. Sapeva bene di essere il nemico numero uno dei nazisti a causa del suo celeberrimo romanzo che prometteva «la verità sulla guerra». All´ovest niente di nuovo - il libro tedesco di maggior successo del XX secolo, 20 milioni di copie vendute, da cui trassero il film - , dopo aver dato adito a una serie di infiammati dibattiti, era stato boicottato in tutti i modi dai nazisti: parlava di miseria infinita, di noia, di mancanza di senso della prima guerra mondiale, della morte ben poco eroica dei soldati. Un libro più che pericoloso per i seguaci di Hitler che non riuscirono a impedirne lo strepitoso successo. Remarque scelse il silenzio, si dichiarò estraneo alla politica, ma intanto continuava a scrivere sul destino degli emigranti e sui campi di concentramento anche durante il suo leggendario soggiorno negli Stati Uniti dove divenne uno degli scrittori e sceneggiatori più amati dagli americani. Nonostante questo, chi legge i suoi diari scopre un uomo irrimediabilmente depresso e pieno di paure. Paura della scrivania, del lavoro, della solitudine.
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