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La Stampa Rassegna Stampa
25.07.2008 Igor Man(zella), specialista in ebrei defunti & tragedie del passato...
e nella disinformazione su Israele

Testata: La Stampa
Data: 25 luglio 2008
Pagina: 36
Autore: Igor Man
Titolo: «Quel 1938 senza misericordia»
Il "vecchio cronista", come ama vezzeggiarsi Igor Man (al secolo Manzella), fruga nei ricordi e scrive il pezzo che qui di seguito riportiamo dalla STAMPA di oggi, 25/07/2008 a pag.36 dal titolo " Quel 1938 senza misericordia". Verrebbe da dire che il tema delle leggi razziali è argomento troppo serio per lasciarlo nelle mani di chi ha fatto nella sua vita di giornalista il trombettiere principe del mondo arabo-palestinese contro le ragioni di Israele. Nessuno ha mai raggiunto le sue vette nella lisciatura del pelo ad Arafat. Come altri, è anche lui specialista in ebrei defunti & tragedie del passato, sulle quale sparge dolore e misericordia, ottimi smacchiatori. Una citazione su Ben Gurion ci sta sempre bene, la prossima sarà su Golda Meir, defunti che non possono più esprimersi, quindi citabili. Mai una volta che il Man(zella) citi l'Israele contemporaneo, degli ultimi trent'anni. Lì, avrebbe pochi nomi da citare.

Ecco il testo:

Settant’anni sono una lacrima dell’oceano della Storia ma ci sono date che crocifiggono il tempo inchiodandolo all’infamia. In eterno. Settant’anni fa, nella residenza di San Rossore, il giorno 14 luglio dell’anno di disgrazia 1938, Vittorio Emanuele III, Re e Imperatore, firma i 28 articoli che compongono il corpus della legge volta a discriminare i cittadini italiani di razza ebraica. Anni fa, a Ginevra, Maria Pia di Savoia ebbe modo di leggere quel testo. Trasecolata: «Dis donc, ma mio nonno ha firmato davvero una infamia simile?», disse (cfr. Fabio Isman). L’infamia s’era data un titolo che voleva esser scientifico: il Manifesto (sic) degli scienziati razzisti; a scriverlo, con la guida di Mussolini, fu un assistente universitario, Guido Landra, che il Duce aveva convocato a Palazzo Venezia per la bisogna. Gli consegnò una «traccia», come spiegò, e un faldone di «documenti» tedeschi, in massima parte arrabbiati ritagli di giornali nazisti. Ma già nel 1932 Mussolini aveva ordinato la pubblicazione di Mein Kampf di Hitler e, nel 1937, dei crespi Protocolli di Sion. In quegli anni gli ebrei iscritti all’anagrafe italiana erano 58.412, un sesto con la tessera del Partito fascista. Coprivano un vasto territorio sociale: dall’Università all’Artigianato, dalla Medicina alla Ricerca, all’Editoria e via così. La firma di Sciaboletta, l’«infamia storica» per dirla con De Felice, riduce gli ebrei italiani alla condizione di underdogs.
C’è chi si sente tradito da Mussolini e subito fugge dall’Italia; c’è chi si ammazza come l’editore Formiggini: col figlioletto in braccio, mi dicono.
In quel tempo il Vecchio Cronista (ch’era giovanissimo) soffrì l’amarezza incredula di Sasha e Berta Grinstein, ebrei di Odessa approdati a Catania negli anni del terrore bolscevico (non c’è pace per i figli di Abramo). Nella bella Paternò, il giardino di Catania, i Grinstein avevano creato un import-export di agrumi fonte di meritata agiatezza. Facevano parte della Catania-bene, erano generosi e allegri, molto ospitali. (Forse felici). Ma il «sistema antiebraico» italiano aveva norme più spietate di quelle tedesche (questo va detto, a smentita degli Italiani «brava gente»), per esempio contemplava l’espulsione degli stranieri.
Tutta Catania, con rarissime eccezioni, si mobilitò in difesa dei Grinstein, argomentando ch’essi erano da considerarsi «cittadini onorari». Ma non ci fu nulla da fare, per i nostri amici ebrei. Mio padre e altri sette amici vennero brutalmente «diffidati». I Grinstein furono cacciati da Catania come cani rognosi. Ripararono negli Stati Uniti. Li raggiunse più tardi il nipote Piotr, animoso ingegnere: mise su una fabbrica di sanitari, nel Connecticut, brevettò una delle prime siringhe indolore: insomma, dall’ago al milione.
Nel 1959, negli Usa per il giornale, riabbracciai «Tata» Berta Grinstein e Piotr (Sasha era morto, «di crepacuore» sentenziava Berta). Fu, la nostra, una «rimpatriata» particolare: parlammo sempre in dialetto: in catanese. Quella festa fu impreziosita da un regalo di Berta: una lettera per Ben Gurion che mi valse più incontri (illuminanti) con quel mezzo Garibaldi e mezzo Cavour.
Una sera chiesi a Berta Grinstein quale ricordo si portasse addosso di quel 1938 senza misericordia. «Vennero a prenderci di notte, una valigetta e via: cacciati come lebbrosi da Catania, nostra seconda patria. Una partenza nel buio, senza “ciao”. Una ferita che non si chiuderà mai».

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