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Il Manifesto Rassegna Stampa
25.07.2008 Il quotidiano comunista attacca Barack Obama
gli articoli di Luciana Castellina e Ali Rashid

Testata: Il Manifesto
Data: 25 luglio 2008
Pagina: 0
Autore: Luciana Castellina - Ali Rashid
Titolo: «L'espediente Palestina - Se Obama tocca il fondo»

L' Anti-Defamation League denuncia l’ondata di caricature comparse in questi giorni sulla stampa araba che rappresentano i due candidati alla Casa Bianca Barack Obama e John McCain come burattini controllati dagli ebrei (a sinistra, un esempio, che riprendiamo da israele.net).
Puntuale, Luciana Castellina si allinea (con la stampa araba, non con l'Anti-Defamation League) sul MANIFESTO del 25 luglio 2008, interpretando le dichiarazioni di Obama in Israele come miranti a compiacere la comunità ebraica americana
 " iperfiloisraeliana":

Io non so se Barack Obama ha detto le cose che ha detto a Gerusalemme perché ne è davvero convinto, o perché non sa quel che ha detto, o perché le ritiene necessarie a vincere le elezioni. Ma non so nemmeno quale di queste tre ipotesi sia la peggiore.
Nel primo caso dovremmo concludere che il candidato democratico si rivela ancor più acriticamente subordinato alla politica israeliana di ogni altro presidente degli Stati Uniti, i due Bush e Ronald Reagan compresi. Nessuno prima d'ora si era infatti mai azzardato a dichiarare che Gerusalemme doveva diventare tutta intera capitale di Israele, in violazione di ogni delibera dell'Onu e del più elementare senso di giustizia storica. Assumere una simile posizione ha dunque un significato la cui gravità va ben al di là della già gravissima specifica questione: implica che il potenziale futuro presidente del più forte paese del mondo è deciso ad infischiarsene anche di quel po' di diritto internazionale che è rimasto e di procedere ulteriormente accentuando il tradizionale unilateralismo dell'Amministrazione americana.
Anche la seconda, peraltro improbabile, ipotesi appare inquietante: che Barack Obama non sia ancora esperto di politica mediorientale non sarebbe così grave (potrebbe sempre ripassare ad ottobre) se non fosse che la sua ignoranza indica quanto poco conti nella politica dei Stati uniti il problema palestinese: per quello che riguarda le élites e per l'opinione pubblica.
Tanto che si può concorrere alla conquista della Casa Bianca anche senza essersene mai occupati.
Più grave di tutte, a pensarci bene, mi pare comunque la terza ipotesi. Perché solleva un problema che riguarda anche noi, vale a dire la qualità democratica del sistema che condividiamo: quale è il prezzo che è lecito pagare per battere un avversario odioso? Obama ha deciso che si debba accettare qualsiasi prezzo e pensa che altrettanto pensino molti dei suoi sostenitori. Se per impedire una vittoria repubblicana bisogna sacrificare i palestinesi, sì da ottenere l'appoggio della comunità ebraica iperfiloisraeliana, lo si faccia.
Ma questa non è esattamente la stessa logica che sta spingendo tanti a dire che se per battere Berlusconi bisogna strappare il consenso di quelli che vogliono cacciare zingari e immigrati, abolire il diritto d'aborto, militarizzare la società e eccetera eccetera, deve esser fatto? Quante sono le concessioni operate in nome di questo principio anche da noi? Quale scelta reale sono in grado di esercitare i cittadini se le campagne elettorali, costrette dentro il forzato centrismo imposto dal bipolarismo, sempre meno orientano sulla sostanza dei problemi e sempre più in virtù di immagini mediatiche, di trovate d'effetto, di espedienti atti solo a rendere tutto equivalente di tutto?
Il risultato finale è che ciò che inizialmente è pensato come espediente tattico diventa alla fine valore, visione del mondo, cui gli elettorati finiscono per adattarsi. Non c'è da meravigliarsi se poi scopriamo che le società in cui viviamo sono mostruose e se alla lunga a vincere è proprio l'avversario che avremmo voluto battere in nome di una soluzione più progressista.
Anche più pericolose appaiono peraltro le parole pronunciate da Obama a proposito dell'Iran. E tanto più perché le ha dette a Gerusalemme. Che come abbiamo letto finanche sul Corriere della Sera in questi giorni non nasconde a nessuno l'intenzione di effettuare un «first strike» su Teheran per prevenire la costruzione di centrali nucleari in quel paese. Un gesto che Washington dovrebbe coprire a posteriori con tutte le conseguenze che possiamo immaginare per la politica mediorientale.
Proprio oggi leggiamo di un'iniziativa assunta da una variegata schiera di politici di primo piano, da d'Alema a Fini a Parisi, in cui - richiamandosi ad analogo appello formulato da altrettanti esponenti politici di altri paesi - si dice che se si vogliono indurre i paesi che non hanno l'arma nucleare a rinunciarci è necessario che chi ce l'ha accetti almeno di ridurre i propri arsenali. Sacrosante parole.
Anche in questa assai condivisibile lettera aperta, tuttavia, si omette di citare la bomba israeliana. Che continua a godere lo status privilegiato della non ufficiale esistenza, sebbene tutti sappiano che esiste. Difficile parlare ad Ahmadinejad senza accennare al problema.
Il fatto è che ormai da decenni il governo di Israele gode dei vantaggi di una sorta di lodo Alfano: l'immunità totale. Mentre la progressiva sparizione dei palestinesi dalla scena politica internazionale è diventata drammatica. Tanto che neppure più c'è l'indignazione per quanto ogni giorno accade.
Io, noi, non siamo di fronte alla scelta di votare o non votare Barack Obama, che aveva aperto qualche speranza, dopo la sua «uscita» israeliana. Menomale. Ma possiamo denunciare i meccanismi che hanno portato a quelle sue dichiarazioni. Perché sono presenti anche a casa nostra.

Anche Ali Rashid attacca Barack Obama: vuole che Israele sia capitale di Israele, nell'ambito di un accordo tra le parti (nel quale potrebbe contemporaneamente essere capitale di uno Stato palestinese), non vuole le armi nucleari iraniane, vuole che cessino i razzi kassam contro Sderot. Per Rashid è il "punto più basso" di Obama:

Chi ha visto Barack Obama a Gerusalemme può aver pensato che il suo discorso facesse parte della campagna elettorale in Israele e non delle presidenziali americane. Quanta delusione hanno provocato le sue prime uscite in politica estera. Si rende davvero conto della portata delle sue dichiarazioni su Afghanistan (dove la guerra deve continuare), Iran e Palestina, i tre punti caldi, cardini della politica internazionale dopo la sanguinosa guerra all'Iraq? Perché in questa fase di campagna elettorale, le parole dei candidati non sono sospese nel vuoto. Sono impegni e strategie per il futuro. Così Obama mostra d'assumere le linee guida stabilite da Israele come indirizzi di politica estera per il prossimo governo Usa. La riprova che la politica americana per il Medio Oriente viene disegnata a Tel Aviv e per esigenze elettorali. E oltre al danno al processo di pace, trasformato in un'improbabile resa incondizionata dei palestinesi, evidenzia uno dei mali della malata democrazia americana, la mediocrità del ceto politico che governa il mondo, i suoi meccanismi di selezione.
Il suo sostegno all'indivisibilità di Gerusalemme come capitale dello stato ebraico azzera infatti qualsiasi possibilità di un accordo tra l'Anp e Israele, riconosce l'occupazione, cancella uno degli obiettivi storici dello Stato di Palestina, riduce ancora di più la credibilità di Abu Mazen rispetto ad Hamas che sostiene l'inutilità di trattare con Israele che persegue obiettivi incompatibili con la pace. E mentre sono in corso, indirettamente, trattative tra Hamas e Israele che hanno portato alla tregua in vigore a Gaza aprendo spiragli su uno scambio di prigionieri, Obama sceglie di sostenere i fautori della soluzione militare. Stupisce anche la scelta di recarsi solo nella cittadina israeliana di Sderot in solidarietà con la popolazione sottoposta al lancio dei missili artigianali Qassam, non curandosi delle immani sofferenze di chi nella vicina Striscia di Gaza vive da anni con gravi problemi umanitari, sotto assedio e sotto bombardamenti che utilizzano le più moderne e distruttive armi di fabbricazione Usa.
Obama nella visita di più di due giorni in Israele ha dedicato solo 45 minuti ad Abu Mazen, chiudendo tutti e due gli occhi sugli insediamenti che divorano il territorio palestinese e la possibilità di quello «stato» che gli Stati Uniti a parole sostengono, sul Muro che azzera questa possibilità e rende la vita quotidiana un'impresa impossibile, sull'occupazione e la repressione che trasformano un intero popolo in vittime di una discriminazione istituzionalizzata. Non vede la corruzione dilagante nelle istituzioni israeliane né il ruolo destabilizzante di Israele in tutta la regione. A questo punto non sorprende che Obama dichiari di voler usare tutti i mezzi per impedire all'Iran di «possedere la bomba atomica» e che lo dichiari in Israele che possiede più di duecento testate atomiche e nega i controlli dell'Agenzia internazionale dell'Onu. E non a caso il capo di stato maggiore israeliano ha dichiarato ieri che per l'esercito inizia la fase «operativa» per trattare la questione nucleare iraniana e dall'altra parte il governo ha varato i finanziamenti per nuove unità abitative nella colonia ebraica a nord della valle del Giordano.
Per Palestina e Medio Oriente si esaurisce, per ora, la speranza d'un possibile cambiamento della politica americana. L'unica certezza è che abbiamo toccato il fondo: Obama ha superato con le sue parole tutti i predecessori, repubblicani e democratici. E addirittura molti israeliani.


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