Da Il FOGLIO del 22 luglio 2008, un articolo sulla visita di Barack Obama in Iraq:
A Baghdad, seconda tappa del viaggio in medio oriente e in Europa, Barack Obama prova a trasformare in punto di forza quella che sinora è stata l’incognita della sua campagna elettorale: la politica estera. Dopo l’Afghanistan, ieri mattina il candidato è atterrato a Bassora, dove si è trattenuto per un paio d’ore con alcuni ufficiali americani, inglesi e iracheni. Obama ha poi raggiunto Baghdad, insieme con gli altri due membri della delegazione del Congresso, Jack Reed e Chuck Hagel, dove un elicottero li attendeva per raggiungere la residenza del primo ministro iracheno, Nouri al Maliki. Ad attendere il candidato c’era anche il generale David H. Petraeus, con cui il senatore ha conversato brevemente prima di imbarcarsi sull’elicottero. “Una visita splendida e costruttiva” ha detto Obama dopo l’incontro, giusto prima di trasferirsi in un’altra ala del palazzo per un colloquio con il vicepresidente, Tariq al Hashimi, uno dei leader del Fronte dell’accordo, il blocco parlamentare sunnita rientrato nel governo dopo quasi due anni di boicottaggio. Un Obama all’apparenza disteso e a suo agio, sia nella vne casual e senza cravatta in compagnia di Petraeus, sia nel frangente istituzionale, nonostante l’aura di scetticismo che lo circonda quando il discorso va sulla politica estera. Gli eventi degli ultimi giorni hanno reso, se possibile, l’equilibrio di Obama ancora più precario. Venerdì scorso il presidente americano, George W. Bush, aveva dichiarato la propria disponibilità a fissare un “orizzonte di tempo generale” per il ritiro delle truppe dall’Iraq. Il giorno seguente il quotidiano tedesco Der Spiegel ha riportato un’intervista in cui il premier iracheno al Maliki si dichiarava favorevole al piano prospettato da Obama di ritirare le forze armate dal suolo iracheno entro sedici mesi dalla sua eventuale elezione. Dichiarazione che avrebbe costituito un endorsement di fatto per il candidato democratico e avrebbe messo il governo iracheno in imbarazzo nei confronti della Casa Bianca. Il gioco delle smentite ha visto il portavoce del governo iracheno, Ali al Dabbagh, si è affrettato ad accusare la traduzione dall’arabo fatta dallo Spiegel e ha spiegato che le parole del premier sono state “fraintese e mal tradotte”. Nella querelle, tuttora irrisolta, è spuntato anche il Times, che ha proposto una traduzione diretta dalla registrazione, di cui è in possesso: “Penso – avrebbe detto al Maliki – che il periodo di sedici mesi prospettato da Obama possa crescere o diminuire leggermente, ma credo che sia adeguato”. E’ probabile che la portata principale del colloquio sia stata l’ipotesi del piano di ritiro, ma il portavoce del governo ha smentito. “Obama non ha parlato di niente che riguardi il ritiro, non ha nessun titolo ufficiale per farlo”, ha ribadito Per il resto, il senatore dell’Illinois ha sfoggiato grandi sorrisi, ha stretto mani e ostentato cordialità senza però fugare qualche sospetto di opportunismo. Peter Wehner, ex assistente del presidente Bush, sul Weekly Standard accusa Obama di avere sempre osteggiato l’intervento in Iraq e di aver votato al Senato contro il surge del gennaio 2007, voluto da McCain, realizzato da Petraeus e battezzato da Bush, dichiarando, all’indomani dell’assegnazione in Iraq di ventimila nuovi soldati: “Non credo che la strategia del presidente Bush funzionerà”. Errore in cui Obama, nota Wehner, ha perseverato, come dimostra la dichiarazione fatta nel luglio del 2007, quando i benefici del surge erano già ben visibili: “La mia opinione è che il surge non abbia funzionato”. Pare però che proprio grazie all’aumento delle truppe Obama possa parlare di “un enorme miglioramento” in Iraq, come ha fatto ieri. Pare anche che descrivere l’eroismo dei soldati, la tattica che ha abbassato il livello di violenza e la cacciata al Qaida dall’Iraq – come ha fatto lunedì sulle colonne del New York Times – indispettisca molti dell’Amministrazione Bush e il rivale John McCain. Randy Scheunemann, il principale consigliere di Politica estera del candidato repubblicano, non ha usato mezzi termini: “La strategia del ritiro incondizionato mette gli interessi della politica al primo posto rispetto al popolo americano”, ha detto ieri. Prima dell’Europa, Obama sarà in Israele e in Palestina, e lì continuerà probabilmente a muoversi sul filo del compromesso, nel tentativo di cucire la sua messianica etichetta anche sulle vittorie altrui.
Sempre dal FOGLIO, un articolo sulla preparazione del viaggio del candidato presidenziale americano in Israele:
Gerusalemme. La prima volta di Barack Obama in Israele risale al gennaio del 2006. Nove giorni in medio oriente, prima in Iraq, poi in Qatar, infine in Israele e Territori. Era una prova generale, in tempi insospettabili, organizzata in tempi record: a meno di un anno dall’elezione al Senato, Obama già si preoccupava di studiare da vicino la difficile realtà israelo-palestinese. Allora, naturalmente, pochi si accorsero della sua presenza in Israele. Non soltanto perché lui non era ancora il fenomeno che è oggi, ma anche perché, una settimana prima del suo arrivo, Ariel Sharon era stato colpito dall’ictus che ancora lo tiene in coma in un letto di ospedale. Silvan Shalom, allora ministro degli Esteri, dopo molte pressioni si decise a concedere a Obama venti minuti del suo tempo, nell’ufficio (poco elegante) di Tel Aviv. L’incontro poi si prolungò per quasi un’ora: Obama faceva un sacco di domande e prendeva appunti. Ai cronisti americani che lo aspettavano per sentire il suo parere, disse: “Sono venuto qui per ascoltare piuttosto che per annunciare”. Da questa sera, dopo la tappa a Baghdad, Obama torna in Israele. E’ atteso a cena dal premier israeliano, Ehud Olmert, poi, con misure di sicurezza senza precedenti, passerà al Muro del pianto, dove lascerà un bigliettino con scritto un desiderio, come vuole la tradizione. Con il ministro degli Esteri israeliano, Tzipi Livni, domani Obama sorvolerà Sderot, città bersaglio dei razzi Qassam dalla Striscia di Gaza, e il confine a nord con il Libano. Dopo una tappa allo Yad Vashem, in agenda ci sono incontri con il presidente Shimon Peres, il ministro della Difesa Ehud Barak e il capo dell’opposizione Benjamin Netanyahu. Al contrario di quanto ha fatto il rivale John McCain, Obama andrà anche a Ramallah dove incontrerà i leader palestinesi. Orly Azoulay, corrispondente di Yedioth Ahronoth a Washington, spiega al Foglio che gli obiettivi di Obama in Israele sono due, uno interno e uno internazionale: cercare di conquistare il voto degli ebrei americani ed eliminare sospetti e pregiudizi nei suoi confronti. Azoulay sta per pubblicare un libro intitolato “Lui ha un sogno – La rivoluzione di Barack Obama in America”, conosce da vicino la squadra del candidato democratico alla Casa Bianca, sa che il viaggio è stato definito nei minimi dettagli. Spiega: “Si è creato un clima in Israele secondo cui Obama è musulmano, arabo, che intende sostenere una politica pro araba, e che sarebbe un male per Israele se fosse eletto”. Per questo, Obama cercherà di fare del suo meglio per affascinare il pubblico israeliano e i suoi leader, e per farlo garantirà quello che ha già annunciato in passato: la sicurezza di Israele è sacrosanta. A prepararlo al riguardo ci hanno pensato Dennis Ross, l’inviato in medio oriente dell’ex presidente Bill Clinton, e Dan Kartzer, l’ex ambasciatore americano a Gerusalemme che negli ultimi mesi è entrato nel grande staff di Obama. “Gli ebrei americani tradizionalmente votano per il candidato democratico – spiega Azoulay – Questa volta però nutrono molti dubbi. Le loro caselle di posta sono state riempite di e-mail contro Obama in cui si dice che il senatore ha giurato sul Corano, che appartiene a una cellula terroristica, che ha studiato in una madrassa a Giacarta. C’è spesso molta ignoranza su Obama, perché non è da tanto sulla scena, molto meno rispetto a un John McCain”. Florida, Ohio e Pennsylvania sono gli stati in cui il voto degli ebrei americani può avere un peso. “E’ per questo – spiega Azoulay – che Obama di recente si è recato in una sinagoga in Florida e ha raccontato che il suo nome in ebraico è Baruch: Barack in arabo significa Benedetto, come Baruch in ebraico”.Il senatore dell’Illinois ha già affrontato il tema del conflitto israelo-palestinese il 4 giugno, davanti all’Aipac, l’importante organizzazione ebraica americana. In quell’occasione ha detto che “la sicurezza di Israele è sacrosanta. C’è un’alleanza con Israele che non si può mettere in discussione”. Ha anche spiegato che Bush, “invece di lottare contro l’Iran che era il pericolo vero, ha attaccato l’Iraq e così si è rimasti privi di una risposta di fronte alla minaccia iraniana che è nel frattempo aumentata”. Secondo Obama, “non c’è bisogno di temere un dialogo e una negoziazione severa con l’Iran mentre si attivano sanzioni dure. Se il dialogo non servisse, per lo meno faremo vedere al mondo che abbiamo utilizzato questo metodo fino in fondo e troveremo più paesi alleati nel caso fosse necessario un attacco. Quest’opzione sarà sempre sulla mia scrivania”. Obama ha – soprattutto – dichiarato che Gerusalemme sarà la capitale indivisibile della stato di Israele, salvo cambiare idea ventiquattro ore dopo: “La sorte della città sarà discussa fra le due parti”. Così ora in Israele c’è grande attesa. Nei corridoi del ministero degli Esteri sanno bene di aver sbagliato analisi – sostenevano Hillary – e sperano di poter correggere subito l’errore. Sottolineano che l’alleanza tra Israele e Stati Uniti è forte a prescindere da chi sarà il prossimo presidente. Anzi quando Obama – che gode di grande popolarità nei paesi e nelle organizzazioni con tendenza anti israeliana – alza la voce e dice no a un Iran nucleare, no al dialogo con Hamas, sì alla sicurezza indiscutibile dello stato di Israele, manda un messaggio più credibile. Per questo Olmert ha già pronto l’ultimo dossier dell’intelligence sull’Iran: lo mostrerà a Obama, esattamente come ha fatto negli ultimi incontri con il presidente americano, George W. Bush.
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