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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
16.07.2008 Afghanistan e Iraq, fronti della guerra al terrorismo jihadista
Barack Obama vuole abbandonare il primo, Christopher Hitchens spiega perché si deve vincere su entrambi

Testata: Corriere della Sera
Data: 16 luglio 2008
Pagina: 0
Autore: Ennio Caretto
Titolo: «Sicurezza, il piano Obama «Potrei incontrare gli iraniani»»

Dal CORRIERE della SERA del 16 luglio 2008, un articolo di Ennio Caretto:

WASHINGTON — Alla vigilia del viaggio in Europa, in Afghanistan e in Iraq, un cruciale banco di prova agli occhi di quegli elettori che sono assillati dal problema della sicurezza nazionale, Barack Obama ha enunciato i 5 obiettivi della sua politica estera se sarà eletto presidente. In un discorso a Washington, il candidato democratico si è impegnato a ritirare la maggioranza delle truppe dall'Iraq entro 16 mesi dall'ingresso alla Casa Bianca, ossia prima dell'estate 2010, ma lasciandovi temporaneamente una forza capace di eliminare i rimanenti terroristi. A inviare più truppe in Afghanistan, chiederne altre agli alleati e persuadere il Pakistan a distruggere i santuari di Al Qaeda nel suo territorio. A ridurre gli armamenti, i materiali e le tecnologie nucleari nel mondo, compresi quelli russi e americani, cosa, ha sottolineato, che renderebbe più facile evitare che l'Iran si procuri l'atomica. A sostituire al petrolio, «una delle armi più pericolose oggi», fonti alternative di energia e creare un Forum energetico globale. E a recuperare le alleanze e gli organismi internazionali aggiungendo una «Partnership per la sicurezza comune contro il terrorismo».
Nel discorso, subito contestato dal candidato repubblicano John McCain e dal presidente Bush, Obama ha glissato su Palestina e Israele, dove peraltro si recherà, limitandosi ad caldeggiare un «accordo pacifico». Ha invece ribadito che vedrebbe, se necessario, il leader iraniano «chiunque sia, in un momento e in un luogo di mia scelta», nel quadro di una diplomazia muscolare con gli alleati, escludendo un intervento armato. Poche ore prima del discorso di Obama, un settimanale francese aveva pubblicato online una lettera riservata inviata il 4 luglio dal governo iraniano ai «5+1» (i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'Onu più la Germania): in essa Teheran avverte che non ascolterà discorsi paternalistici e non «cambierà strada» rispetto al suo programma nucleare, ma vuole un accordo di pace più ampio.
«È meglio risolvere i problemi con la forza delle idee e dell'economia che con la forza militare » ha affermato Obama, annunciando che come presidente stanzierà 2 miliardi di dollari per i rifugiati iracheni, 1 miliardo di dollari annui per la ricostruzione dell'Afghanistan e altrettanto per il Pakistan, che porterebbe a 50 miliardi di dollari gli aiuti all'estero entro il 2020 e investirebbe anche 150 miliardi di dollari in 10 anni per l'energia pulita in America.
Obama ha enunciato il suo pentalogo nello spirito del generale George Marshall, il segretario di Stato che nel '48 rilanciò l'Europa con l'omonimo piano. Se dopo l'11 settembre 2001, ha asserito, Bush lo avesse imitato, il mondo sarebbe in pace. Ma il presidente ci ha ingannato, trascinandoci in Iraq, ha aggiunto, «che non è il fronte centrale della lotta al terrorismo», e trascurando l'Afghanistan «che lo è». È l'ora di «una ragionevole ridistribuzione delle forze», ha terminato, accusando Bush anche di avere alienato gli alleati: «Ripristinerò lo spirito di collaborazione di Marshall, si tratti di porre fine alla tirannia del petrolio o di stabilizzare l'Africa e l'Asia centrale». McCain e Bush hanno reagito aspramente. Il candidato repubblicano ha sostenuto che il «successo a Bagdad può essere ripetuto a Kabul». Bush ha ammesso per la prima volta che entrambi i Paesi, non solo l'Iraq, «sono fronti centrali della lotta al terrorismo». Ma ha consigliato a Obama di «verificare la situazione coi nostri militari prima di parlare».

Un articolo di Christopher Hitchens, che potrebbe valere come risposta alle tesi di Obama sull'Iraq:

Se c'è una certezza morale e politica che riscuote il consenso dei liberal più di qualsiasi altra è questa: mentre l'Iraq è «una guerra voluta», solo quella in Afghanistan è effettivamente «una guerra di necessità ». Questa opinione è solidissima e sembra inattaccabile. Anche lo scorso mese, mentre gli jihadisti iracheni cominciavano a ritirarsi e (secondo alcuni rapporti) anche a ricollocarsi in Afghanistan e in Pakistan, molti commentatori continuavano ancora a sostenere che era stato un errore sprecare truppe in Iraq. Quest'opinione semplicistica ignora, come minimo, i punti seguenti: 1. MoltiseguacidiAlQaeda — in modo particolare l'orribile Abu Musab al Zarqawi, ora deceduto — si sono insediati in Iraq solo dopo essere stati costretti ad andarsene dall'Afghanistan. Se non si voleva combattere le forze di Bin Laden in Mesopotamia, allora non si doveva invadere l'Afghanistan.
2. La presenza americana in Afghanistan non è affatto «unilaterale»: è ufficialmente sottoscritta, sostenuta, armata e rafforzata dalla Nato e dagli alleati delle Nazioni Unite. Il comandante delle forze anti-talebane di solito non è neppure un americano. Eppure qui vi sono più vittime tra gli americani, e non solo tra di essi, che in Iraq. Se questo avviene, la ragione non può solo essere che le nostre risorse sono impiegate altrove.
3. Molte delle campagne più efficaci contro i talebani sono state condotte dalle forze americane trasferite dall' Iraq, in particolare dalla provincia di Anbar. Queste vittorie militari sono il risultato di tattiche e strategie anti-insurrezionali apprese in Iraq e impiegate poi con successo in Afghanistan.
In altre parole, tutti i tentativi di contrapporre le due guerre restano esercizi accademici. Vediamone le conseguenze. Molti ora sembrano credere che sia sbagliato associare Saddam Hussein a: 1) le armi di distruzione di massa, o 2) il terrorismo di Stato. Non sono d'accordo; ma solo a titolo di esperimento, immaginiamo che esista un regime che ponga entrambe queste minacce. (La mia immaginazione è tanto fervida da riuscire perfino a pensare che ce ne sia uno il cui nome comincia anch'esso per I).
Saremmo forse costretti a dire apertamente e in anticipo che l'alleanza occidentale non può affrontare questa minaccia se prima non ha ottenuto il controllo dell'Afghanistan? Sarebbe come dire che non si può fare nulla in quella regione finché non si arriva a una sistemazione della questione israelo-palestinese.
E questo significherebbe che non solo tutti i mascalzoni della regione avrebbero campo libero finché una delle controversie più vecchie e difficili non venisse risolta, ma anche che farebbero di tutto per non arrivare a una risoluzione. (Ed è questa, naturalmente, la ragione per cui Saddam appoggiava — come ora gli iraniani — i kamikaze).
Sarebbe anche comodo accettare un altro luogo comune nel raffrontare le guerre in Iraq e Afghanistan, credendo che il problema dell' Afghanistan riguardi solo la scarsità di truppe.
Stranamente questa non è l'opinione del governo afghano o delle altre forze dell'Alleanza atlantica sul campo. La continua e crescente insolenza dei talebani e dei loro alleati di Al Qaeda è la conseguenza di un solo fatto: questi terroristi teocratici sanno di avere un sostegno sicuro nelle alte sfere dello Stato pachistano, del suo complesso militare e dei suoi servizi segreti e che, fin quando vi sarà questo appoggio, potranno muoversi senza problemi attraverso il confine e avere un apporto costante di uomini e di armi. Il problema, per Barack Obama e i suoi sostenitori del partito democratico è, quindi, il seguente: vorranno risolvere la cosa ritirando le forze americane dall'Iraq e mettendo un contingente più nutrito a controllare una frontiera dove uno dei nostri principali «alleati» è continuamente impegnato a pugnalarci alle spalle? (Lo scorso anno Barack Obama stesso sembrò capire l'illogicità della sua posizione e parlò appassionatamente della possibilità di inseguire i talebani sul suolo pachistano, ma ultimamente non abbiamo più sentito discorsi di questo tipo. Intendeva forse dire, mi viene da pensare, che avevamo abbastanza truppe per occupare tre Paesi, invece dell'unico che si era stabilito? O voleva solo scambiare l'Iraq con il Pakistan? Per quanto riguarda il Pakistan, sappiamo con sicurezza che ha armi nucleari acquistate in modo piratesco e che ospita e sostiene i talebani e Al Qaeda).
Un'altra considerazione si impone. Se è vero, come ha scritto ieri a caratteri cubitali il New York Times in prima pagina, che «gli Stati Uniti stanno pensando di accelerare il ritiro dall'Iraq / Si nota un calo di violenza / Più truppe sarebbero disponibili per le operazioni in Afghanistan », allora questo potrebbe essere solo una conseguenza del fatto che Al Qaeda in Iraq ha subito una sconfitta per mano nostra — una sconfitta militare accompagnata da un'umiliazione politica in cui i suoi fanatici sostenitori sono stati ripudiati con rabbia dalla stessa popolazione per la quale sostenevano, falsamente, di combattere.
Se avessimo lasciato l'Iraq seguendo le richieste del movimento pacifista, la situazione sarebbe stata opposta: la popolazione irachena sarebbe ora orribilmente tiranneggiata dai sadici seguaci di Al Qaeda, che potrebbero anche vantarsi di aver inferto una sconfitta agli Stati Uniti. E la voce si sarebbe diffusa abbastanza velocemente in Afghanistan e negli altri Paesi in cui opera il nemico. Tenetelo a mente la prossima volta che sentirete parlare della «caccia al vero nemico » o blaterare che possiamo affrontare i nostri avversari solo in un Paese alla volta.

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